Frantz
Chi conosce e ama il cinema del quasi cinquantenne parigino François Ozon (che da giovane faceva il modello per poi convertirsi alla settima arte con risultati che lo hanno consacrato quale uno degli autori più poliedrici e interessanti di questi anni) sa bene che nessuno dei suoi film somiglia a quanti lo hanno preceduto e può scommettere senza sbagliare che non avrà molto in comune con quelli che lo seguiranno negli anni.
Anche in questa sua ultima fatica presentata allo scorso Festival veneziano Ozon si mantiene fedele alla sua poetica della rivisitazione creativa dei generi, mostrandosi a proprio agio nella capacità indiscussa che ha di incastonare talune ossessioni ricorrenti (la scomparsa, la menzogna, il rapporto tra verità e finzione, il senso di colpa come persecuzione a posteriori) all’interno degli elementi consolidati di un genere ormai cristallizzato nel tempo.
Frantz è infatti solo in apparenza un melodramma molto classico sia per ciò che racconta che per le modalità visive con le quali ripercorre i sussulti interiori dei personaggi che ne popolano il tessuto narrativo. Se però lo si analizza in filigrana e si ha la voglia di andare al di sotto della superficie patinata di un bianco nero scelto sia per sintonia cromatica con l’epoca in cui si svolge la vicenda raccontata che per un vezzo stilistico volto a differenziare gli stati d’animo con l’adozione o meno del colore, non può sfuggire come Ozon abbia ancora una volta scelto di affrontare un determinato genere cinematografico per decostruirne la sintassi più che per adottarne gli stilemi rivisitandoli a proprio modo.
Tanto per cominciare, come spesso accade nel cinema di questo autore non facile da incasellare proprio per la sua intima vocazione a rifuggire da ogni etichetta preconfezionata, alla radice di questo intenso melodramma pacifista c’è un ingorgo di fonti letterarie e filmiche che fanno da numi tutelari all’intera operazione, rendendola però fin dall’inizio una sorta di palestra ermeneutica nella quale ci si deve muovere con cautela per capire cosa sia frutto della creazione originale e cosa invece un confronto intenzionale con esperienze artistiche di un passato lontano che si vuole risvegliare per sfidarne la resistenza all’usura del tempo e rileggerlo in relazione al presente.
Dire che Frantz è un rifacimento di Broken Lullaby (il mélo diretto da Lubitsch nel 1932 e noto anche col titolo de L’uomo che ho ucciso) risulta piuttosto riduttivo e limitante. Non fosse altro per il fatto che dietro quella rara incursione nei drammoni interiori da parte di un maestro della commedia sofisticata quale Lubitsch c’era già infatti un romanzo omonimo pubblicato due anni prima da Maurice Rostand (e a sua volta rielaborazione narrativa di una sua pièce teatrale dallo stesso titolo), figlio di quell’Edmond consegnato all’eternità della fama dal Cyrano de Bergerac.
Un ingorgo di fonti cui corrisponde puntuale un’analoga congestione di temi. Come se il ricco complesso di riferimenti filmici e letterari non fosse sufficiente per rendere improba una sfida d’autore già di per sé fin troppo rischiosa, Ozon riscrive a modo suo la vicenda del libro di Rostand (poi trasposta sullo schermo da Lubitsch) condendola con un groviglio di temi che ne arricchiscono grandemente la linearità della monotonia di partenza. E cioè il senso di colpa di un giovane soldato francese che s’illude di poter ridare un senso alla propria vita rimpiazzando presso la famiglia e la fidanzata il coetaneo tedesco che ha ucciso in guerra.
Anche nel film di Ozon c’è fortissima la presenza del senso di colpa come motore primo delle azioni umane. Quasi tutti i personaggi in scena sono o vittime di questo stato d’animo fin dal momento in cui appaiono in scena oppure finiscono per soggiacervi non appena si trovano ad affrontare con lucidità le ragioni del proprio cupo risentimento verso ciò che da sempre percepiscono come altro da sé e quindi nemico per eccellenza. Al punto che due interi popoli — i tedeschi sconfitti e i francesi vincitori della Grande Guerra — vengono mostrati come incapaci di affrancarsi dal senso di colpa per aver sacrificato la loro meglio gioventù in nome di folli deliri nazionalistici.
A Ozon piace però giocare per addizione quantitativa più che lavorare per sottrazione qualitativa. E così il suo melodrammone pacifista si arricchisce di molti altri temi che, per intensità di peso e centralità di collocazione, ne compromettono un minimo la fluidità del discorso, affaticando lo spettatore là dove lo chiamano a districarsi nella foresta di sollecitazioni che si accalcano nel racconto e rischiano di frastornare i meno attrezzati a mettere insieme i troppi pezzi del puzzle.
Se nel film e nelle opere letterarie all’origine del tutto il connubio tra senso di colpa e tensione alla denuncia antimilitarista erano già una costante ed erano affrontate in maniera lineare (lo spettatore veniva immediatamente informato dell’accaduto e sapeva per quale ragione il giovane soldato francese si stesse recando in Germania), in Frantz il gioco delle parti viene riproposto all’insegna del thriller: nessuno sa per quale ragione un giovane francese si rechi in un piccolo paese tedesco per conoscere la fidanzata e la famiglia di un soldato germanico. Lui e il compianto Frantz erano veramente amici prima che la guerra scoppiasse?
In un gioco di false piste disseminate qua e là strizzando l’occhio a Hitchcock e al thriller di razza (ma con atmosfere che ricordano il Jules et Jim di un altro grande francese di nome François), Ozon illude lo spettatore facendogli credere ciò che vuole. Ovvero che il giovane apparso dal nulla all’inizio del film conoscesse davvero il defunto Frantz del titolo, e che le ragioni della sua venuta in Germania siano proprio quelle che egli sciorina alla povera ex fidanzata Anna, piagata dal dolore della perdita irreparabile ma al contempo commossa al pensiero che un ex amico del suo promesso sposo le possa ridare quella voglia di vivere che l’orrore del conflitto ha tolto a lei e a un’intera nazione.
Da quel momento in poi a prendere il sopravvento è la menzogna e tutto si avvita in un vortice di bugie dette quasi sempre a fin di bene pur di evitare di riaprire vecchie ferite o di infliggerne di nuove. Tutti mentono a tutti. Perfino a se stessi. E quando la protagonista parte alla volta di Parigi sulle tracce del giovane e fascinoso francese scomparso dopo essere venuto a sconvolgerle la vita, una volta svelata l’ennesima menzogna dietro la quale il francesino ha cercato di celarsi per sparire per sempre, solo allora capisce che per ricominciare qualcosa che somigli a un’esistenza occorre accettare la falsità come utensile interiore per adattare il proprio disagio sulle frequenze di quello altrui.
La centralità di questo tema (che riesce a non soggiacere al sovrapporsi di molti altri quali l’antimilitarismo, il pacifismo, la denuncia impegnata, l’uso dei conflitti del passato per parlare dell’Europa di oggi sull’orlo del baratro, il risorgere dei nazionalismi ma anche l’amour fou, il romanzo di formazione interiore, il sospetto latente, e chi più ne ha ne metta) è ribadita costantemente anche dall’alternarsi di bianco e nero e colore in un gioco voluto di ribaltamenti intenzionali che riserva tutte le tinte dell’arcobaleno solo ai momenti in cui la vita viene descritta come non è stata ma come si sarebbe voluto fosse.
E non è certo un caso che l’arte, la musica e la letteratura (finzioni per eccellenza che rendono sopportabile la verità annacquandone la violenza coi surrogati delle proprie creazioni fittizie) abbiano un ruolo decisivo nel favorire la relazione tra i personaggi. Come se Ozon — usando i versi di Verlaine e un quadro di Manet come alfabeti simbolici dei loro sillabari interiori — ci volesse ribadire una volta di più che al cinema non si deve richiedere di raccontare la realtà per quello che è, ma pretendere che ce ne offra sempre una versione edulcorata quanto basta per renderla accettabile.
Classico nei toni e nei temi (pur con tutte le forzature imposte dal suo autore tanto ai primi che ai secondi) e forte di una coppia di giovani attori di cui si sentirà per forza parlare in futuro per l’intensità con cui danno corpo ai complessi personaggi interpretati, più che un film soltanto Frantz è una rivisitazione laboratoriale del melodramma fatta con coraggio creativo e, proprio per questo, passibile di essere percepita dal pubblico come un esercizio di stile un po’ freddo e distante in cui l’urgenza di riflettere sulla rielaborazione delle forme del contenuto ha troppo spesso il sopravvento sull’oggetto della narrazione. Il che però non smette di fare di Ozon un autore vero, tra i pochi capaci di dare un senso nuovo a una materia fragile come quella dei sogni in celluloide.
Trama
Il Frantz del titolo è un soldato germanico, caduto in battaglia durante la Grande Guerra. Una volta finito il conflitto, in un piccolo paese tedesco, una giovane donna che ne era la fidanzata si reca ogni giorno sulla sua tomba per cercare di elaborare un lutto che l’ha devastata nell’intimo togliendole la voglia di vivere. Ma un giorno arriva in città un giovane francese, ugualmente desideroso di rendere omaggio alla tomba dell’amico tedesco conosciuto a Parigi e ben presto fin troppo intimo con la neovedova tornata a guardare al mondo con occhi meno spenti. Ma la sua sua presenza e l’insorgere di un sentimento inatteso — viste la recente sconfitta germanica e le troppe ferite ancora aperte — non tardano a provocare una serie di reazioni molto forti e sentimenti estremi tra i cittadini. Come se tutto questo non bastasse, una tragica sorpresa sulla vera natura del rapporto che legava il giovane francese e il defunto Frantz contribuisce ad accelerare la corsa verso il baratro dei personaggi coinvolti nella vicenda.
di Guido Reverdito