Flaminia
La recensione di Flaminia, di Michela Giraud, a cura di Gianlorenzo Franzì.
Flaminia è il primo film da regista di Michela Giraud, stand-up comedian e ora sceneggiatrice e attrice. Un debutto a tutto tondo, di quelli impegnativi, che fanno (o farebbero) tremare un po’ le vene e i polsi: cosa che magari è successo a Michela, che intanto porta a casa un risultato di tutto rispetto.
In una stagione cinematografica, giova sempre dirlo, nella quale sono tanti -in proporzione- i nomi di attrici che decidono di saltare dietro l’obiettivo, dimostrando personalità e vena autoriale: accanto a Cortellesi, allora, a Buy e a Ramazzotti, ecco anche Giraud che mette in scena un personaggio che sembra uscito da un film pecoreccio degli anni Novanta ma subito dopo fa il giro e ti prende allo stomaco.
Flaminia, un po’ come i suoi tre film cugini, convince perché la sua autrice si mette in gioco svincolandosi dalle facili commedie che potevano venire fuori considerando il suo background: e invece mette da parte tutto e si lancia a capofitto in una storia che punta il dito su una delle cose più difficili da trattare al cinema con equilibrio, ovvero la malattia (Ludovica, la bravissima Rita Abela, è la sorella della protagonista nello spettro autistico), decidendo di non usare mai un tono consolatorio.
In questo modo, Flaminia prende le strade parallele per descrivere in controluce i suoi personaggi: non è mai un je accuse contro il lusso volgare dei nuovi ricchi, non è un’agiografia della difficoltà di assistere un malato, non è una commedia che usa il nome famoso per arrivare dove vuole.
Perché Giraud decide di cucirsi addosso il personaggio per starci comoda in modo tale da mostrare quanto è davvero brava a recitare: e riempie il film con i suoi sguardi, con i suoi sorrisi, con i suoi silenzi, senza per questo rinunciare a un easy telling che la allontana da qualsiasi accusa di arroganza o presunzione. È per questo allora che Flaminia non ha i difetti classici delle opere prime: non accumula niente, non spreca niente, non vuole dimostrare niente né insegnare qualcosa a qualcuno.
Si mette solo accanto allo spettatore, lo accarezza un pochino e lo porta, con garbo e moderazione, a fare un giro per far vedere cosa c’è oltre il nostro naso. Col sorriso sulle labbra: ma con educazione e intelligenza, senza spintonare fino alla risata.
di Gianlorenzo Franzì