Flags of Our Fathers
La maturità artistica raggiunta da Clint Eastwood ha ormai permesso al cineasta americano di attestare il proprio cinema su un livello di massima qualità.
Anche l’ultimo Flags of Our Fathers non smentisce tale affermazione, anzi appare evidente un ulteriore consolidamento non solo registico, ma anche concettuale.
Sarebbe fin troppo riduttivo collocare Flags of Our Fathers nella sterile casella “cinema di guerra”. Questo lungometraggio rappresenta una tappa decisiva nell’evoluzione espressiva e intellettuale di un regista che sempre più può essere considerato uno dei colossi del cinema contemporaneo.
Prendendo spunto da un episodio della complessa storia della Seconda Guerra Mondiale (la furiosa battaglia tra americani e giapponesi per il possesso dell’isola di Iwo Jima), Eastwood compie un’operazione di carattere teorico, addirittura filosofico.
La vicenda dei tre presunti eroi che piantarono la bandiera americana sulla sommità di una collina dell’isola giapponese è presa come spunto per una doppia lucidissima e severa riflessione. Da una parte il regista pone la sua attenzione sull’ambiguità dell’immagine foto-cinematografica, mostrando in modo chiaro lo scollamento netto tra realtà e rappresentazione della realtà, dall’altra analizza con caustica precisione la tecnica della creazione dei miti nella società contemporanea.
La base di questo doppio discorso è il tema della comunicazione e dello strapotere perverso dei massmedia, in grado di manipolare facilmente l’opinione pubblica per questioni, connesse al potere politico, che nulla hanno a che fare con gli interessi della gente comune. A fare le spese di questo scellerato meccanismo sono i semplici cittadini, i quali travolti dal turbine dei messaggi comunicativi finiscono per essere sfruttati volgarmente da un sistema senza scrupoli per venir poi emarginati e dimenticati.
Eastwood ha costruito quest’opera concettuale attraverso il respiro del grande affresco storico e umano. Il suo stile è inconfondibile: misurato, complesso ma leggibile, diretto e ben congegnato sotto il profilo figurativo e dell’uso della musica.
La struttura narrativa è incentrata su un susseguirsi di accelerazioni e ritorni indietro, in una sorta di dispositivo a incastri che però non distrae mai l’attenzione dello spettatore dalle tragedie personali dei protagonisti.
La fotografia gioca in questo lavoro un ruolo centrale: i colori sono lividi e cupi, tendono quasi al bianco e nero. Questa scelta fornisce aFlags of Our Fathers una fortissima connotazione tragica, decisamente interiore e filosofica, appunto.
Le scene di battaglia sono straordinarie non perché particolarmente convulse e drammatiche ma perché caratterizzate da una specie di angoscia sotterranea e devastante che contraddistingue dialoghi e inquadrature.
La sensazione che prova lo spettatore alla fine della visione di Flags of Our Fathers è quella di una sconvolgente amarezza, determinata dalla consapevolezza dell’assurdità delle azioni individuali e collettive e dalla tendenza inspiegabile verso un’autodistruzione che evidenzia il lato irrazionale e folle dell’agire umano.
Fondamentale per la comprensione dell’opera è la completa visione dei titoli di coda, parte integrante dell’operazione autoriale di Clint Eastwood.
*per concessione della testata giornalistica Cultframe – Arti Visive e Comunicazione
http://www.cultframe.com/
di Maurizio G. De Bonis