Finalmente l’alba

Le recensioni di Finalmente l'alba, di Saverio Costanzo, a cura di Anna Maria Pasetti e Franco La Magna.

La recensione di
Anna Maria Pasetti

Virando l’idea iniziale di realismo sul caso Montesi in una fiaba dark coeva al tragico fatto di cronaca del 1953, Saverio Costanzo realizza con Finalmente l’alba uno dei suoi lavori più ambiziosi, certamente quello dal budget più corposo. Punto di vista e cuore del racconto è una giovane catapultata casualmente nel magico mondo della Hollywood sul Tevere, che con la sfortunata Wilma – fuori campo mai che aleggia nello sfondo narrativo e anzi motivo di inquietudini per la protagonista – condivide l’età e le location della lunghissima notte che trascorre in compagnia di star americane. Queste trascinano Mimosa in un vortice eccentrico tra il sogno e l’incubo, cercando nei suoi grandi occhi pieni di stupore, un’innocenza che loro da tempo hanno smarrito.

Opera articolata, ricca di idee, che il regista ha sceneggiato appellandosi a evidenti ispirazioni cinematografiche che vanno dai felliniani Lo sceicco bianco e La dolce vita, a Bellissima di Visconti, Finalmente l’alba può ascriversi a romanzo di formazione di una novella Alice nel paese delle meraviglie in cui il discorso meta-cinematografico è a servizio dello sconfinamento tra realtà e finzione operato dalla fertile immaginazione della protagonista, sul cui punto di osservazione è saldamente fissato lo sguardo del regista.

Nel viaggio che la porterà all’alba, ovvero alla consapevolezza di sé, Mimosa – interpretata dalla sorprendente Rebecca Antonaci – attraversa tappe archetipiche del percorso emancipativo dell’inconscio, fatto di inquieti boschi, fantasmi e corridoi costellati da significative porte d’accesso che, se da una parte separano i mondi, dall’altra ricordano quanto il cinema sia anche il riflesso scomposto di tante verità, l’importante è scegliere la propria. 

Film geometrico e poetico sul guardare e sul nascondersi, curato nella narrazione degli spazi che avvicendano location di assoluta bellezza, dotato di una drammaturgia insaziabile di turning point – talvolta con qualche accento e lunghezza di troppo – e di indubbio alto valore produttivo, Finalmente l’alba conferma la cifra dark, onirica ma anche ironica di un autore innamorato del cinema, capace, anche dai drammi più oscuri, di riscattare e illuminare le coscienze. 

La recensione di
Franco La Magna

Due mondi a confronto o meglio in conflitto, tuttavia momentaneamente in precaria simbiosi, sospinta da una necessità che si prolunga nel tempo di una notte, finché l’alba ne sugella l’ineluttabile fine. Finalmente l’alba (2023) – ultimo lavoro scritto e diretto da Saverio Costanzo (figlio di Maurizio), presentato in concorso per il Leone d’Oro all’80° Festival di Venezia – annoda tra fiction e personaggi reali un plot ispirato alla cupa vicenda della sventurata Wilma Montesi, per costruirne in parallelo un film complesso, al contempo omaggio all’age d’or della Cinecittà degli anni ’50 (miraggio di una “Hollywood sul Tevere”), al genere peplum, al neorealismo (attraverso l’incipit fantastico in bianco e nero di un film mai girato), al “cinema nel cinema”, in chiaroscuro al divismo.

Denuncia, ancora, del mondo cinico, perverso e corrotto della Roma bene (ma in simbiosi con quello del cinema), contrapposto alla verginale purezza rappresentata dalla giovane e ingenua protagonista Mimosa (Rebecca Antonaci), che – scelta come comparsa di un kolossal americano in lavorazione negli stabilimenti di Cinecittà – nell’arco di poco più di ventiquattro ore passerà dal sogno impossibile, appena ghermito, del raggiungimento d’un inarrivabile paradiso in terra, ad una vera e propria discesa negli inferi, fino ad un surreale rientro nella usuale quotidianità.        

Ambientato nella tristamente nota villa di Capocotta (Roma), pochi giorni dopo il celeberrimo, controverso ed irrisolto caso Montesi, clamorosa vicenda di cronaca nera iniziata il 9 aprile 1953 con la morte – ufficialmente per annegamento nel mare di Torvaianica – della ventunenne Wilma Montesi, una giovane donna di modesta estrazione sociale che tentava la strada del cinema, in cui rimase coinvolto il musicista e compositore Piero Piccioni, fidanzato di Alida Valli, allora attrice fetish del cinema italiano, nonché figlio del deputato DC Attilio Piccioni, Vicepresidente del Consiglio e Ministro degli Esteri, Finalmente l’alba appare dal titolo indicativo della fine di un incubo vissuto nottetempo nella scandalosa villa-labirinto di Capocotta dalla protagonista della quale, tuttavia, si evidenzia l’ambiguità. La giovane Mimosa, inopinatamente scelta come comparsa del kolossal che si sta girando a Cinecittà, seduce e si lascia sedurre dal divo americano (Keery), in un gioco ambiguo di fughe, spaesamenti, abbandoni. Lei stessa, gabellata come poetessa svedese e costretta ad esibirsi restando naturalmente muta di fronte ad un pubblico che ne scambia l’estremo imbarazzo come recita, dopo una notte d’incubo e d’amore in cui perde la verginità (da intendere come fine dell’innocenza) tornerà a cercare il suo seduttore-sedotto, nel tentativo di riconquistarlo, ingenuamente fidandosi del suo potere seduttivo, sfidando addirittura l’irraggiungibile diva hollywoodiana (James, archetipo del delirio divistico, di cui è vittima la stessa giovane Mimosa), protagonista del peplum in lavorazione e già amante dello stesso attore che ha sedotto e di cui si è fatta sedurre, da cui inevitabilmente sarà respinta.                                                                                

La surreale, “felliniana”, sequenza finale, rientro nella realtà “dell’eroe” incarnato nella giovane donna protagonista, sembra chiudere ancora, come in un eterno ritorno, la “renovatio” del comune elemento universale (già individuato da Aristotele nella “Poetica”), degli archetipi e degli eterni stereotipi. La struttura sinottica sempre uguale a se stessa (Propp in “Morfologia della fiaba”, 1929, ne dimostra l’immutabilità) riporta, infatti, alla storia narrata all’infinito, ossia al modello mitologico individuato già da Joseph Campbell ne “L’eroe dei mille volti”, pubblicato nel 1949, in cui il viaggio-metafora del prode ineluttabilmente segue le tre cronologiche fasi canoniche: separazione, iniziazione e ritorno.

Mimosa, presentata apparentemente come personaggio secondario, lascia la comunità d’origine (la famiglia), vaga alla ricerca della conoscenza (scopre il necessario, per quanto momentaneo, abbandono dei genitori), finché finalmente raggiunge nella sequenza finale la consapevolezza della impenetrabilità di quel mondo creduto raggiungibile, in realtà inaccessibile. Sofferenze, paure, rischio, piacere e speranze si fondono in un continuo andirivieni, nella notte d’incubo e di meraviglie, cruciale per il compimento dell’educazione sentimentale di Mimosa. Infine chiuso il romanzo di formazione, superato lo smarrimento e lo stordimento del “viaggio al termine della notte”, la donna tornerà alla comunità originaria per ritrovare gli affetti imprescindibili della famiglia. Ill percorso circolare (mondo ordinario-mondo straordinario-ritorno al mondo ordinario) è compiuto.                                                                                                        

Prodotto da Wildside, Fremantle e Rai Cinema (che lo distribuisce), il film ha goduto del considerevole budget per il cinema italiano di circa 30 milioni di euro ed è stato immesso sul mercato in edizione ridotta di oltre 20’ rispetto alla durata originaria. Interpreti principali: l’inglese Lily James (Josephine Esperanto), Rebecca Antonaci (Mimosa), gli americani Joseph David Keery (Sean Lockwood) e William James Dafoe (Rufo Priori).                                                                                                     


di Anna Maria Pasetti e Franco La Magna
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