Palazzina Laf
La recensione di Anna Di Martino, seguita dalla rassegna stampa a cura di Simone Soranna, riguardo Palazzina Laf, di Michele Riondino, Film della Critica per l'SNCCI.
Palazzina Laf, di Michele Riondino, distribuito da BIM Distribuzione è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI con la seguente motivazione:
«Trovando un efficace equilibrio tra l’approccio realistico alla dimensione popolare e la distorsione grottesca delle figure in campo, eterne vittime del loro destino sociale, Michele Riondino esordisce nella regia con un film che ritrova la lezione del cinema italiano d’impegno civile, tra Germi e Petri, e consegna una vibrante e coinvolgente denuncia di fatti reali avvenuti sullo sfondo del dramma sociale e ambientale della città di Taranto».
Per il suo debutto alla regia, Michele Riondino ha deciso di affrontare un argomento sentito e per il quale si è documentato in modo approfondito: il mondo del lavoro nel complesso Ilva, il polo siderurgico che, per chi vive a Taranto, è luogo di lavoro e fonte di inquinamento, un posto pieno di contraddizioni. Palazzina Laf si apre con il funerale di un operaio e ci mostra come i sindacati tentino di far prendere consapevolezza ai lavoratori dei loro diritti.
Siamo alla fine degli anni ’90. Caterino Lamanna, interpretato da Riondino, è uno dei tanti operai che vive miseramente con la fidanzata albanese, finché un giorno incontra un conoscente ai vertici dell’azienda che gli propone un cambio di mansione e la macchina aziendale, una panda scassata, a fronte di informazioni che gli deve passare, spiando i colleghi. Caterino non si pone problemi e accetta l’incarico, non vuole approfondire ciò che sta succedendo nell’azienda e in città, anche quando vede una pecora morire o quando vede tanti colleghi demansionati, come la segretaria del capo, finire nella Palazzina Laf, un luogo dove sono stati mandati tutti coloro che in qualche modo l’azienda non vuole più vedere e non vuole più far lavorare nei propri reparti.
Nella sua ingenuità a Caterino sembra un luogo fantastico, un posto dove non si lavora e si è pagati ugualmente. I colleghi finiti nella Palazzina, stanchi di cercare di far passare il tempo, vorrebbero ribellarsi, denunciare la situazione, scrivono una lettera che non riescono a consegnare al vescovo, ma finalmente, nonostante Lamanna continui la sua attività di spia, la verità verrà scoperta e ci sarà un processo che vedrà come accusato, come ci dicono i titoli di coda, il presidente dell’Ilva Emilio Riva per violenza privata, ciò che oggi chiamiamo mobbing, una parola ancora poco usata a quel tempo, e che porterà alla ribalta come il non lavoro, il demansionamento siano da considerarsi molestie effettuate dai datori di lavoro, penalmente perseguibili.
Riondino, tarantino legato al proprio territorio, mette passione in ciò che racconta e alla fine ci fa sentire l’audio di dichiarazioni fatte da alcuni lavoratori che hanno vissuto la realtà della Palazzina e hanno provato sulla propria pelle il “confino” lavorativo. Ottimo esordio dell’attore e neoregista pugliese, che cerca una sua strada originale e coraggiosa nel rappresentare i lavoratori di un passato prossimo dell’Ilva, ritagliandosi per sé la parte più difficile da interpretare, quella dell’uomo opportunista e vile, apparentemente senza sentimenti. Molto bravi anche gli attori che insieme a lui hanno dato vita a un vibrante racconto di denuncia.
Una breve rassegna della stampa italiana sul film
(a cura di Simone Soranna)
La critica italiana ha accolto positivamente il film di Michele Riondino. Il tema trattato è stato spesso accostato ai grandi nomi del cinema civile italiano, come scrive ad esempio Roberto Manassero su Cineforum in cui dichiara che Palazzina Laf è «un film sul mondo operaio, sulla sua crisi e la sua fine, osservate dalla prospettiva distorta e illusoria di un traditore, naturalmente nel nome di Elio Petri e nel solco del destino di una classe operaia che questa volta va letteralmente in paradiso, salvo scoprire che si tratta, se non proprio di un inferno, sicuramente di un purgatorio». Gli fa eco Roberto Silvestri che sulle pagine di Film Tv afferma: «l’esordio di Riondino (scritto con Maurizio Braucci) è un perfetto “film pol-pop”, come Elio Petri amava denominare il cinema politico popolare: dove la deformazione espressionistica e grottesca di fatti e personaggi accentua l’esattezza millimetrica della ricostruzione storico-politica».
Raffaele Meale, su Quinlan, riflette sulla medesima questione denotando uno scarso interesse delle produzioni contemporanee per le tematiche sociale di prim’ordine. «Era da molto tempo – scrive Meale – che il cinema italiano, per lo meno quello più afferente alle potenzialità produttive del mainstream (qui tra le realtà coinvolte, oltre all’onnipresente Rai Cinema, ci sono la Palomar di Carlo Degli Esposti e il comparto produttivo di BIM), si teneva ben alla larga dal film “di denuncia”; forse lo scotto pagato da Fandango nella messa in opera di Diaz – Don’t Clean Up This Blood di Daniele Vicari ha funto da paradigma in negativo, spingendo una classe produttrice già di suo abbastanza pigra e poco interessata a mettersi davvero in gioco a voltare la faccia dall’altra parte, tenendosi a debita distanza da chi – o cosa – i problemi poteva crearli».
Anche Sergio Sozzo si sofferma sull’impatto tematico della pellicola. Scrive infatti sulle pagine di Sentieri Selvaggi: «l’intenzione è chiaramente quella di incrociare l’afflato sociale e il j’accuse con i toni della commedia grottesca, in una piena tradizione all’italiana oggi non più troppo frequentata: e da un certo cinema nostrano “civile” sporco e cattivo sembrano provenire anche le maschere tragiche, perennemente alterate e puntualmente irredente del protagonista Caterino (lo stesso regista) e del perfido dirigente Elio Germano».
Paolo Mereghetti invece, sulle pagine del Corriere della Sera, loda l’esordio alla regia di Riondino, denotando un interessante tendenza del cinema italiano più contemporaneo. Scrive infatti il critico: «dopo quello di Paola Cortellesi, ecco un altro notevole esordio alla regia di un attore, Michele Riondino, e la sorpresa può essere solo di chi dimentica che la storia del cinema è ricca di grandi star che hanno dimostrato di saperci fare, e pure molto, anche dietro la macchina da presa, dal Charles Laughton di La morte corre sul fiume alla Barbara Loden di Wanda». Gli fa eco Roberto Nepoti, che sulle pagine di La Repubblica scrive così: «gli attori italiani che esordiscono nella regia non cessano di stupirci. Negli ultimi anni il nostro cinema è stato pieno di filmetti senza uno straccio di trama e sciatti nel linguaggio; loro, invece, affrontano argomenti di alto spessore civile, curando anche lo stile cinematografico».
di Anna Di Martino