Il sol dell’avvenire

Le recensioni di Irene Gianeselli, Mariella Cruciani, Franco Montini e la rassegna stampa a cura di Simone Soranna riguardo a Il sol dell'avvenire di Nanni Moretti, Film della Critica per l'SNCCI.

Il sol dell'avvenire
Il logo dei Film della Critica SNCCI

Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti, distribuito da 01 Distribution, è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani (SNCCI) con la seguente motivazione:

«Rivisitando il proprio sguardo tra convinzioni, ossessioni e idiosincrasie, Nanni Moretti firma un “ritorno al futuro” che mette al centro la sostanza dell’utopia nel cinema, nella politica e in sintesi nella vita. E lo fa frontalmente come e più di sempre in un film profondamente morettiano eppure fellinianamente declinato. Epilogo di un cinquantennio di carriera, Moretti diverte e commuove, irridendo di sé, cantando e ballando alla libertà espressiva cui mai rinuncerà».

La recensione
di Irene Gianeselli

Non fischia il vento e non infuria la bufera sulla Roma che è ancora quella dei giri in vespa di Caro diario (oggi sono di moda i monopattini). Ne Il sol dell’avvenire vengono messi in discussione temi (riti, meglio) della cinematografia di Nanni Moretti: il gelato (si pensa pure a Amore tossico di Claudio Caligari), l’ossessione per le scarpe e gli altri che deludono, il pallone (Bianca), l’essere un autarchico dai capelli lunghi che si diverte con un Paté de bourgeois e fa una gran fatica a vivere l’amore (Ecce bombo), il bisogno di litigare e tenere in ostaggio il set di un altro regista (in Aprile era quello di una pubblicità diretta da Luchetti, oggi è il set di un giovane esaltato che cerca la scarica adrenalinica nell’efferatezza), i giornali (Aprile), la critica cinematografica stereotipata e il fatto che adoriamo gli intellettuali (Sogni d’oro), la panchina (Caos calmo). E si potrebbe continuare ritornando a tutti i “vecchi” discorsi (Habemus Papam, Il caimano) che però, in effetti, dicono molto dell’oggi (orsi che si vogliono abbattere inclusi).

Come Nanni-Giovanni, il regista-attore protagonista, anche noi nuotiamo nel ricordo (Palombella rossa). Mentre seguiamo il discorso (sceneggiatura solida, ritmo impeccabile) ci tornano in mente le parole del canto partigiano da cui è tratto il titolo, mai citato direttamente, e il film (che incastra non Tre piani, ma almeno cinque) ci sembra rispondere a tutte le mancanze della sinistra italiana dal secondo dopoguerra a oggi: dalla scelta di Togliatti di non far sfilare le partigiane accanto ai partigiani il 25 aprile 1943 a Milano, alla sua fedeltà all’Unione Sovietica che reagì con una invasione violenta e fratricida alla Rivoluzione ungherese nel 1956 (vertiginoso parallelismo storico con l’attuale situazione europea), passando per i fallimenti dei compromessi, delle correnti e delle rifondazioni con un accenno non nostalgico, ma critico, ai girotondi (canta Battiato).

Il sol dell’avvenire è un film “sovversivo” per due ragioni: Moretti afferma che non si può restare dalla propria parte anche quando sbaglia e prende posizione contro una certa industria cinematografica (dalla produzione alla distribuzione, passando per la critica), quindi contro una certa cultura italiana. Quella autoreferenziale che resta sospesa tra il fascismo e la retorica da libro Cuore, quella che ignora che “poetico” è “politico” e non a caso, in questo attraversamento del tempo più che dello spazio, Moretti cita San Michele aveva un gallo dei Taviani e Breve film sull’uccidere di Krzysztof Kieślowski.

La recensione
di Mariella Cruciani

Nelle piccole cose fidati della mente,
nelle grandi del cuore.
S. Freud

Con Il sol dell’avvenire, Nanni Moretti torna – insieme al suo alter ego Giovanni – alla vita, al cinema, alla politica e… all’amore! Il quattordicesimo lungometraggio del cineasta romano ha come protagonista un regista (Moretti stesso) che sta girando una pellicola ambientata durante la rivolta di Budapest del 1956. Personaggio centrale del film nel film è un redattore dell’Unità (Silvio Orlando), rispettoso dei dogmi del partito, mentre la sua compagna (Barbora Bobulova) lotta, più coraggiosamente, per il cambiamento e la libertà. Giovanni ha una moglie (Margherita Buy) che gli vuole bene e che non riesce a lasciarlo, nonostante sia stanca delle sue ossessioni: a dispetto del nome mutato, egli ripropone, infatti, i tic e le piccole manie di Michele Apicella e anche lo spettatore, inizialmente, teme di essere finito dentro uno dei film precedenti. Non è così! Archiviate ben presto le battute sui famigerati sabot, le autocitazioni, gli immancabili rimproveri correttivi, l’opera comincia a “lievitare” e a scoprire le carte.

“Avere l’impressione di restare sempre al punto di partenza/e chiudere la porta per lasciare il mondo fuori dalla stanza/considerare che sei la ragione per cui io vivo/ Questo è o non è amore?”. Le parole del brano di Noemi cantato da Giovanni e da tutta la troupe iniziano a rivelare l’oggetto urgente del discorso e ad indicare la traiettoria da seguire. Un’altra canzone-chiave della colonna sonora (Et si tu n’existais pas di Joe Dassin) ribadisce: “Se tu non esistessi/ allora perché dovrei esistere io? / E se tu non esistessi/ sarei solo un altro punto/ in un mondo che viene e che va/ Mi sentirei perduto/Avrei bisogno di te”. Infine, la stessa attrice incarnata dalla Bobulova dichiara convinta al “suo” regista: “Senza saperlo, stai facendo un film (pessimista) sull’amore!”.

In verità, Il sol dell’avvenire è tutt’altro che tale e si esce dal cinema riconciliati con se stessi e con la vita. È vero: a un certo punto, viene citato il giudizio di Calvino sul suicidio di Pavese ma, qui, le cose andranno diversamente e il regista Giovanni sceglierà per il redattore del suo film, non la paventata fine, ma un promettente nuovo inizio. La potenza e la gioia sprigionate dal ritorno alla vita, all’amore, al cinema (“Una mattina vi sveglierete e comincerete a piangere perché vi renderete conto di quello che avete combinato!”) raggiunge l’apoteosi nel finale, commovente ed epico insieme, in cui la Storia, minuscola e maiuscola, viene riscritta con i “se” e con i “ma”: un finale che non annulla il passato ma lo traghetta nel futuro.

L’immaginazione, la fantasia, la vitalità hanno la meglio su antidepressivi e sonniferi: finché si è capaci di sognare, la nera signora non ci avrà!  Giovanni/Moretti, come un’araba fenice, scrive “tutt’altro finale”, non senza averci ricordato ancora una volta, nel nome di Kieslowski, come etica ed estetica, morale e bellezza siano inseparabili. Grazie, Nanni!

La recensione
di Franco Montini

Quello di Nanni Moretti è un cinema dichiaratamente autobiografico, il più autobiografico in assoluto, tanto che lo stesso regista ama ricordare che nei suoi film si riflette il suo stato psicofisico del momento. Al centro delle storie c’è sempre lui: una modalità a cui Moretti ci ha abituato sin dagli esordi e che ha funzionato perché, pur raccontando se stesso, Moretti ha saputo raccontare una generazione, che, nel corso degli anni, è stata prima giovane, poi adulta, ora più che matura, quasi alle soglie della vecchiaia. Moretti ha saputo descrivere un’epoca, o meglio le diverse epoche della nostra storia recente e illustrare un paese nelle sue trasformazioni. Ma l’autobiografismo di Moretti, mai compiaciuto o retorico, bensì crudele al limite dell’autolesionismo, con gli anni ha perso quella sincera ferocia, espressa innanzitutto nei confronti di se stesso: l’egocentrismo si è progressivamente trasformato in malcelato narcisismo, fino ad assumere ne Il sol dell’avvenire i connotati dell’autocelebrazione.

Nel suo ultimo film Moretti celebra il proprio passato cinematografico e non interpreta un personaggio, ma una maschera: fa un po’ il verso a se stesso. Gli sguardi e le espressioni del viso, le parole, le esternazioni di fronte alle diverse situazioni, in un clima volutamente esagerato, sono quelle che il pubblico si aspetta di vedere e di ascoltare. Contrariamente al solito, Il sol dell’avvenire è un film senile, pieno di situazioni già viste, di ricorrenti oggetti simbolo, di ossessioni note, di riti scaramantici consumati, di rimandi consueti. Un film privo di quell’attenzione verso il nuovo, l’emergente, il non ancora celebrato e classificato che, a lungo, è stata una delle principali qualità del cinema di Moretti, capace perfino, si pensi a Il caimano e a Habemus papam, di intuizioni profetiche. Qui, invece, tutto è previsto e prevedibile: dalle idiosincrasie, le pantofole, i sabot; alle presenze inevitabili, il pallone, lo psicanalista, le piscine. E ancora non mancano le canzonette, preferibilmente italiane, con la scena immancabile della cantatina in macchina, le coreografie danzanti, reminiscenza del finale de La messa è finita, e la sequenza della cena nel tinello di casa, momento topico in tutti i film di Moretti per raccontare il confronto fra genitori e figli. Fino ad arrivare alla lunga, interminabile discussione etica ed estetica sulla rappresentazione della violenza nel cinema, con le partecipazioni, narrativamente superflue, di Renzo Piano, Corrado Augias, Chiara Valerio.

Il sol dell’avvenire è un film ad uso e consumo dei fan più fedeli, che si divertiranno nel riconoscere i rimandi: la copertina multicolore già vista in Sogni d’oro; il nome del circo, Budavari, come il nome del giocatore di pallanuoto incubo del protagonista di Palombella rossa. Ed anche gli elementi di novità introdotti rispetto al passato sono citazioni di precedenti, analoghe situazioni cinematografiche: i titoli di testa, che ricordano L’intervista di Fellini, e il circo così altrettanto sfacciatamente felliniano, mentre la sorpresa nello scoprire l’anziano fidanzato della figlia e la “sconvenienza” di un amore segnato da un’enorme differenza d’età, erano già stati raccontati da Sergio Castellitto ne La bellezza del somaro. Anche i bersagli polemici, a partire da Netflix, sono quanto mai scontati: troppo facile disegnare come tonti i dirigenti del colosso multinazionale, che ripetono instancabilmente 190 paesi: qui tutto suona troppo banale. Se la carriera di Moretti è la dimostrazione che non si deve dare al pubblico ciò che piace, ma ciò che gli spettatori ancora non sanno che piacerà, questa volta di tutto ciò non c’è traccia e Il sol dell’avvenire sembra un catalogo/antologia, un Bignami per il ripasso del cinema morettiano.

A corto di idee, nonostante l’apporto di tre sceneggiatrici, Federica Pontremoli, Valia Santella, Francesca Marciano, Moretti insegue il proprio fantasma, incapace di aggiungere qualcosa di inedito al deja vu, perché non basta sostituire la Vespa con il monopattino per realizzare un film sovversivo, come dichiara sullo schermo lo sciroccato coproduttore francese, interpretato da Mathieu Amalric.

Anche la struttura narrativa, con il film nel film, Giovanni (Nanni Moretti ovviamente) è un regista che, mentre sta realizzando un film, vede naufragare il suo rapporto con la moglie/produttrice (Margherita Buy), non è che l’ennesima ripetizione di uno schema già ampiamente sperimentato in Sogni d’oro, Il caimano, Mia madre. Da tempo, come da lui stesso dichiarato, Moretti aveva in progetto di realizzare un film sul 1956 e il conseguente dramma vissuto dai comunisti italiani. Il sol dell’avvenire parte proprio da questo spunto, con una coppia, formata dal segretario della sezione romana del PCI del Quarticciolo (Silvio Orlando) e sua moglie (Barbora Bobulova), che hanno idee diverse a proposito della rivolta di Budapest. Un contrasto che offre l’occasione per proporre l’invenzione di maggior interesse del film: come sarebbe cambiata la storia del PCI, e di conseguenza dell’intera Italia, se Togliatti e il gruppo dirigente del partito avessero all’epoca trovato il coraggio di schierarsi dalla parte degli insorti ungheresi, della libertà e della democrazia. Ma, consapevole di non essere riuscito a comporre una vicenda in grado di sostenere il peso e la durata temporale di un lungometraggio, alla storia ungherese Moretti ha sovrapposto il resto, affidandosi agli elementi più noti e popolari e ricorrenti della sua poetica.

Così è nato un film che, pur nella struttura complessa e variegata, procede a scatti, per brevi momenti intensi, qualche piacevolezza, un minimo di malinconia, una riproposta di parole, momenti, situazioni già sperimentate, con un finale che chiamando a raccolta i volti di tanti attori già presenti nei film del passato, potrebbe sembrare un anticipato addio, una sorta di immagine testamento. Ma forse si tratta solo di una promessa: “le persone non cambiano” afferma Giovanni/alias Nanni ne Il sol dell’avvenire, ma la conclusione del film sembra rivelare che anche lo stesso regista/protagonista sia consapevole che è venuto il tempo di cambiare.

Nanni Moretti ne Il sol dell'avvenire

Una breve rassegna della stampa italiana sul film
(a cura di Simone Soranna)

Il film di Nanni Moretti è stato accolto molto positivamente dalla critica italiana. Spesso è stato messo in relazione all’intera carriera del regista e alla sua filmografia. Roberto Manassero, ad esempio, si pronuncia così su Cineforum: «Che Il sol dell’avvenire sia l’ di Moretti – o meglio, che Moretti appena ne sente il bisogno e ne ha la possibilità faccia un nuovo 8½ – è fin scontato da scrivere. Ciò che rende bello questo suo ultimo film, dunque, non è tanto il cosa ma il come: come, cioè, Moretti, dopo tutto quello che ha fatto per essere e diventare Moretti, da Michele Apicella a Nanni e ora Giovanni, ha voluto ripensare al suo mondo nel contesto attuale del cinema. Tra le memorie e le macerie dei suoi film precedenti e dei suoi tic (inutile fare elenchi, chiunque riconoscerà più o meno tutto), Il sol dell’avvenire, fin dalla prima sequenza lenta e cadenzata, con l’elaborata creazione di una scritta a caratteri cubitali su un muro lungo il Tevere, è un film sul tempo».
Gli fa eco Emiliano Morreale sulle pagine di The Hollywood Reporter Roma quando si domanda «Cosa poteva fare Nanni Moretti dopo Tre piani? In quel film largamente incompreso, il regista era arrivato a una visione desolata di un mondo di uomini vuoti, che si incarnava in uno stile essenziale. Il sol dell’avvenire è in apparenza un ritorno al proprio universo più riconoscibile: Moretti torna a essere protagonista, mette in scena le proprie idiosincrasie e addirittura torna alla politica. Eppure Il sol dell’avvenire presuppone il film precedente, il suo disincanto, e lo rimette in scena cercando una via d’uscita».

Anche Gianni Canova, su We Love Cinema, riflette sulla dimensione temporale del film. Afferma il critico: «Per sperare di poter guardare ancora avanti bisogna prima rivolgere lo sguardo indietro. Detto in altri termini: prima che sorga finalmente l’agognato sol dell’avvenire, è necessario fare i conti (far tramontare?) il sol dell’avvenuto. Si regge su questo curioso paradosso il nuovo film di Nanni Moretti: un’immersione nel passato (dello stesso Moretti, del suo cinema, ma anche della società italiana, del cinema che l’ha raccontata, dell’ideologia che l’ha nutrita) per aprire un varco verso un possibile futuro».
Discorso simile a quello affrontato da Andrea Chimento su IlSole24ore: «Moretti guarda al passato per comprendere il presente e riflettere sul futuro: potremmo sintetizzare così Il sol dell’avvenire […] Moretti firma un’opera, dove il suo personaggio è un Michele Apicella invecchiato, con tantissime (auto)citazioni che rimandano ai lungometraggi della prima parte della sua carriera».

Federico Chiacchiari, su Sentieri Selvaggi, insiste nell’indagare il tema mettendolo però in relazione con cinematografie internazionali: «Forse un fulmine ha, finalmente, colpito Nanni Moretti. Un’esplosione interna, uno stravolgimento dei sensi, che lo ha riportato, come in Ritorno al futuro di Zemeckis, indietro (o a spasso?) nel tempo. Chissà forse anche lui come il protagonista del film di Coppola ha imparato improvvisamente tante lingue, e il suo corpo/cinema, come in un effetto speciale, ha iniziato a ringiovanire…».
Raffale Meale, invece, mette correla il film di Moretti con la Storia del cinema italiano seguendo il “filo rosso” della danza: «Egli danza, faceva dire Pier Paolo Pasolini a Orson Welles ne La ricotta parlando di Federico Fellini. “Fa molto Fellini, vero? Che bello!” commenta uno dei personaggi di Ecce Bombo seguendo con lo sguardo un gruppo di anziani che si mette a ballare sulle note di Lei di Adamo. Quando sul set del film nel film de Il sol dell’avvenire partono le note di Voglio vederti danzare di Franco Battiato, con l’intera troupe che inizia a muoversi in modo vorticoso imitando le danze sufi dei dervisci rotanti sulle spine dorsali, appare evidente come l’intento di Nanni Moretti sia quello di veder danzare il pubblico, più che di danzare egli stesso».

Alessandra Levnatesi, su La Stampa, allarga il discorso alla componente politica. Scrive la critica: «Nell’emblema dell’Urss il sole nascente sta per Il sole dell’avvenire di un agognato futuro socialista, per Nanni Moretti il simbolo ha un significato diverso, o perlomeno andrebbe seguito da un punto interrogativo. Giocato sulla lacerazione provocata dai fatti di Ungheria 1956 nei comunisti nostrani, il film nel film che il protagonista Gianni sta girando rappresenta un’ulteriore riflessione di Nanni (stavolta rovistando nella Storia) sull’essenza di quella «cosa» in perenne crisi chiamata sinistra».
Mentre Giulio Sangiorgio si interroga ancora più a fondo sulla rappresentazione e la simbologia del e nel cinema di Moretti. Scrive infatti così sulle pagine di FilmTV: «Lei ci ha parlato dei fatti suoi, di un’esperienza personale molto limitata. Ma questo film non è rappresentativo [dei giovani]». «Infatti», risponde il protagonista di Sogni d’oro, «io non volevo rappresentarli: a malapena rappresento me stesso». Anni dopo Margherita, in Mia madre, si chiede: «Da che parte sta l’immagine? Dalla parte di chi picchia o di chi è picchiato?». L’essere o non essere «rappresentativo» è una domanda insistente, in Moretti. Il problema. Il punto. Cosa rappresento? E come? C’è stato, nei primi film, un io insofferente nei confronti d’un mondo che non lo rispecchia, e a cui risponde con la sua intransigente misura, la propria morale indiscutibile: un comico che è anche (soprattutto?) la solitudine di un numero primo».


di Irene Gianeselli
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