Green Border
La recensione di Guido Reverdito, seguita dalla rassegna stampa a cura di Simone Soranna riguardo a Green Border, di Agnieszka Holland, Film della Critica per l'SNCCI.
Green Border, di Agnieszka Holland, distribuito da Movies Inspired, è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI con la seguente motivazione:
«Con un approccio duro e sconvolgente, in un bianco nero che rende ancora più drammatica la situazione, la regista polacca descrive il trattamento violento e crudele subìto dai migranti al confine tra Polonia e Bielorussia, mettendo il luce, oltre all’ovvio aspetto disumano, la volontà di ogni Stato di usare a scopo politico il flusso di gente disperata che ha perso tutto».
La recensione
di Guido Reverdito
La filmografia di Agnieszka Holland (dagli esordi nei primi anni ’70 fino a giorni nostri) non può lasciare dubbi: il suo è un cinema che ha sempre declinato la denuncia sociale e politica con la grammatica di un didascalismo mai fine a se stesso, ma sempre forte della convinzione di dover portare alla luce ciò che la Storia e le convulsioni del Caso hanno sepolto nell’oblio affinché diventi parte di un percorso educativo dello spettatore.
E se il principio non fosse sufficientemente chiaro, a rinforzarlo ci pensa questo suo ultimo lavoro, Green Border, un pugno nello stomaco girato in un abbacinante bianco e nero che la giuria dell’ultima kermesse veneziana aveva giustamente insignito del proprio Premio Speciale e che gli organizzatori del 35esimo Trieste Film Festival hanno di recente scelto come evento di apertura della rassegna giuliana.
Il confine verde del titolo (dove il colore funziona come traccia cromatica di speranza in un grigiore tetro che non è solo il tratto distintivo della pellicola) è quello che separa Bielorussia e Polonia. Ed è lì che approda una famiglia di rifugiati siriani insieme a una professoressa afghana di inglese. Un gruppo eterogeno cementato dalla disperazione ma soprattutto dalla malriposta convinzione di poter entrare in un paese membro della UE per poi ricongiungersi con parenti in Svezia.
Le cose però non stanno così. Siamo nel 2021 e quel fitto lembo di foresta verde che separa i due paesi si rivela essere una sorta di palestra di sopravvivenza per i rifugiati, vittime da una parte della propaganda del presidente bielorusso Lukashenko che attira a braccia aperte migranti dall’est del mondo per rendere esplosivo il confine e destabilizzare i governi occidentali, e dall’altra della violenta repressione della polizia polacca di frontiera, cui il governo xenofobo e repressivo di Andrzej Duda ha imposto di ricacciare indietro gli esuli con la forza bruta.
Dopo aver indagato in lungo e in largo la Shoah in molte delle sue innumerevoli articolazioni, con Green Border la veterana maestra del cinema polacco rivolge il suo lucidissimo sguardo indagatore sul tragico destino di migliaia di innocenti coinvolti in un sadico risiko di rappresaglie politiche tra blocchi globali e singoli paesi sovrani.
Uno dei quali, nel caso presente, è proprio la sua Polonia, in cui i contrasti interni dovuti alla politica divisiva del governo Duda sono ulteriormente acuiti dai contraccolpi connessi all’invasione russa dell’Ucraina (paese martoriato da due anni di conflitto in cui Holland aveva per altro ambientato cinque anni fa Mr. Jones, incentrato guarda caso sulla carestia causata dalla Russia che negli anni ’30 mise a repentaglio la sopravvivenza del paese).
Duro e puro come devono essere i veri documenti di denuncia, questo viaggio nella disperazione (in cui c’è spazio anche per un richiamo al recente scoppio del conflitto in Ucraina con la conseguente emorragia di profughi diretti in Polonia) chiama in causa la pietas dello spettatore senza però mai incasellare vittime e carnefici in facili semplificazioni da buoni e cattivi, limitandosi invece a sottolineare come la sofferenza di enormi masse di innocenti sia il prodotto di giochi di potere di chi usa carne da cannone per imporre distorte logiche di politica interna. Per lo spettatore italiano Green Border ha però una valenza particolare: è di fatto l’occasione propizia per capire come l’emergenza migratoria sia un’istanza globale, nella speranza che l’essere esposto al calvario di chi lotta per sopravvivere ma in aree del mondo diverse dal Sud Italia aiuti a mettere nella giusta prospettiva tanto l’abuso che del tema viene fatto dal populismo di propaganda, quanto la percezione che la gente comune ha della crisi migratoria come un problema esclusivamente nazionale
Una breve rassegna della stampa italiana sul film
(a cura di Simone Soranna)
Sin dalla sua presentazione al Festival di Venezia, Green Border è stato accolto piuttosto positivamente dalla stampa italiana, che lo ha definito un gradito ritorno agli esiti più coraggiosi e stimolanti della filmografia della regista, dopo numerosi anni più altalenanti.
Federico Pontiggia, su La Rivista del Cinematografo, riflette sul concetto di confine che emerge dal film, a cominciare proprio dal titolo. Scrive così il critico: «Terra di confine, terra di nessuno. Il verde vorrebbe speranza, ma il “confine verde” tra Bielorussia e Polonia richiama piuttosto fede, ché si prega Allah, e carità, dispensata dagli attivisti. In carnet Poeti dall’Inferno e Io e Beethoven, la polacca Agnieszka Holland torna alle atmosfere umane e disumane di Europa Europa (1990) con Green Border (Zielona Granica), in Concorso a Venezia 80. Fotografia in bianco e nero di Tomasz Naumiuk, Holland piazza la camera proprio sul confine, inquadrando il rimbalzo di migranti tra guardie di frontiera bielorusse e polacche».
Gli fa eco Matteo Mazza che, su Duels, indaga ancora più a fondo questa tematica sottolineando come il film prova a portare in scena «il confine come matrice per raccontare la guerra, qui inteso come limite morale, corporeo, relazionale, geografico, politico, sempre invalicabile, ma pure come soglia da oltrepassare, orizzonte a cui tendere, sempre rinnovabile. Un segno che mostra ciò che separa con inaudita violenza, come una frattura che spezza e inevitabilmente restituisce un’identità ferita, soffocata, persa. Green Border (in concorso a Venezia80) di Agnieszka Holland, rappresenta il ritorno della regista polacca al lungometraggio di finzione dopo una lunga e fertile parentesi nella serialità televisiva e una manciata di titoli da noi poco visti (e poco riusciti) realizzati negli ultimi anni, dopo In Darkness e L’ombra di Stalin».
La critica si è poi interrogata sullo sguardo adottato dalla regista per raccontare questa storia. Si tratta infatti di una scelta ben precisa, a tratti anche sorprendente, come denota Adriano De Grandis su Il Gazzettino: «da Agnieszka Holland, 75enne regista polacca, arriva un cupo, duro e sconvolgente j’accuse in opaco bianco-nero al trattamento dei migranti sul confine polacco-bielorusso (da qui il titolo “Green border”). Persi nella boscaglia e costretti costantemente a passare avanti e indietro la frontiera, come corpi indesiderati e soprattutto usati a scopo politico, i profughi (anche quelli che arrivano in aereo, per dire) diventano, oltremodo, oggetto di profonda e scioccante conflittualità interna e personale, con la popolazione e soprattutto gli attivisti pronti ad aiutare chi ha bisogno, mentre il Potere dello Stato e le Forze di polizia si comportano spesso come veri aguzzini».
Queste tonalità più crude e grottesche sono state apprezzate da Alessandro Uccelli il quale, su Cineforum, afferma che Green Border costituisca un ottimo equilibrio tra retorica cinematografica e urgenza tematica. Scrive infatti così il critico: «a quasi un quarto di secolo da Europa Europa, dopo che si era persa dentro alle lusinghe del cinema americano, dentro a serie TV anche importanti e film talvolta pomposi ma quasi sempre deludenti, forse nessuno si aspettava da Holland una riaffermazione della portata di questo film. È la dimostrazione che motivazioni culturali e umane forti possono ancora portare a un cinema che pone degli interrogativi con il giusto tono di voce, senza rintanarsi nel conforto della disamina del proprio ombelico (e delle risposte ad effetto zuppe di retorica)».
Anche Tonino De Pace si dimostra soddisfatto dell’esito del film, andando ancor più in profondità nella riflessioni circa le immagini curate dalla cineasta. Scrive infatti così su Sentieri Selvaggi: «Agnieszka Holland rifuggendo con equilibrio ogni semplicismo e ogni induzione alla facile emozione, ci ha dimostrato, ancora una volta, il potere enorme delle immagini, anche di quelle inventate, ma così somiglianti e sovrapponibili al reale. Ed è proprio di reale che si parla, così materializzato in quella fotografia gelida e pastosa che ci offre il film nella sua esplicita radicalità che diventa terreno scivoloso, facilmente attaccabile per la insita drammaticità degli eventi in quel facile gioco che esclude di per sé ogni ulteriore drammatizzazione».
Sul tema si pronuncia anche Raffaele Meale. Tuttavia, sulle pagine di Quinlan, esprime una visione un pelo più tiepida in merito: «Holland, che sposa uno stile asciutto e reso all’apparenza rigoroso dall’utilizzo – anche qui, come nella maggior parte del cinema contemporaneo, puramente esornativo – del bianco e nero, costruisce una tragedia a tappe in odor di arthouse senza risparmiarsi una crudezza estrema, e sfiorando dunque quella pornografia del dolore che un’opera dalla concisione quasi documentaristica dovrebbe in realtà rifuggire. La regista si adopera acciocché l’eleganza non venga mai meno, e così Green Border assicura qualche colpo ben assestato alle certezze visive dello spettatore ma al contempo riesce a cullarlo attraverso lo splendore fotografico, la nettezza dei contrasti, la perfezione del quadro».
di Guido Reverdito