Godland – Nella terra di Dio
La recensione di Ignazio Senatore e la rassegna stampa a cura di Simone Soranna riguardo a Godland - Nella terra di Dio, di Hlynur Palmason, Film della Critica per l'SNCCI.

Godland – Nella terra di Dio di Hylnur Pálmason, distribuito da Movies Inspired, è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI.
«Tra fede e conflitti, omaggiando le lezioni di Bergman e Dreyer, l’islandese Pálmason costruisce un western potente, crudele ed estremo. Senza alcuna spettacolarizzazione, a cominciare dal formato, il regista racconta il viaggio impervio di un giovane sacerdote danese in Islanda, dove tutto è ostile, dagli uomini alla natura, fino al linguaggio».

La recensione
di Ignazio Senatore
Fine XIX Secolo. A Lucas, giovane prete danese (Elliott Crosset Hover), è affidato il compito di costruire, prima dell’inverno, una piccola chiesa in un’isola sperduta di una regione dell’Islanda e fotografare i suoi abitanti. Il compito non è affatto agevole; fa freddo, bisogna attraversare fiumi gelati in sella a un cavallo e accamparsi in posti di fortuna. Dopo molto lavoro, Lucas incontrerà Carl (Jacob Lohmann), la persona che deve aiutarlo a costruire la chiesa e che vive in quella landa deserta con le sue figlie; Anna (Victoria Carmen Sonne) e la piccola Ida (Ida Mekkin Hiynsodottir). La chiesa è pronta, ma la fede di Lucas inizia a vacillare.
Film per palati fini, per quei spettatori che amano le narrazioni sospese, i dialoghi rarefatti e una scrittura narrativa asciutta ed essenziale, dal taglio documentaristico. Pálmason fa largo uso di primi piani, della voce fuori campo e inserisce, nel corso della narrazione, dei canti e dei dialoghi in lingua originale che accompagnano la lunga ed estenuante traversata dei protagonisti.
Una bella sforbiciata in fase di montaggio avrebbe reso più fruibile la visione del film (durata 143’) che finisce per affaticare lo spettatore. A ben vedere, però, al di là della storia in sé, delle riflessioni sul sacro e la spiritualità, il vero protagonista della vicenda è il magnifico e variegato paesaggio, composto da terre brulle, immensi ghiacciai e da un vulcano che erutta lava e lapilli.

Una breve rassegna della stampa italiana sul film
(a cura di Simone Soranna)
Sin dalla sua prima proiezione mondiale al Festival di Cannes, il film ha ricevuto critiche decisamente convincenti da parte della stampa italiana. Giona A. Nazzaro, sulle pagine di Rumore, raccoglie così il suo entusiasmo: «un film affascinante e fuori dal tempo; che guarda senza troppi timori reverenziali alla grande lezione di Dreyer e Bergman, senza dimenticare tocchi herzoghiani. anche se chiaramente si tratta di riferimenti che farebbero tremare i polsi a chiunque. Al suo terzo lungometraggio, il regista islandese alza ancora di più l’asticella delle sue ambizioni». Anche Alberto Anile, su La Repubblica, rivede echi bergmaniani nella pellicola. Scrive il critico: «Godland è il terzo e miglior film di Hlymur Pálmason, 2 ore e 20 divise fra un complicato viaggio e un ancor più difficile insediamento. Stilizzatissimo: diciamo un Bergman con le simmetrie di Wes Anderson e il formato “quadrotto” di First Reformed di Schrader (anche lì un prete). Divisioni culturali, fotografie al collodio, un amore, qualche morto ammazzato: ma il film è soprattutto un’estatica immersione nella natura per ascoltare la voce di Dio – o il suo silenzio, dipende dai punti di vista».
Valerio Sammarco, per La rivista del Cinematografo, si sofferma su un estratto molto importante del film secondo il suo parere. «C’è un momento nel bellissimo, terzo lungometraggio di Hlynur Pàlmason, che restituisce un’epifania sconvolgente: la piccola Ida che copre con la mano l’occhio di una gallina prossima alla fine mentre la sorella maggiore ne sta uccidendo un’altra. È il confine tra il visibile e il non visibile, il mistero che separa il conosciuto e l’ignoto, l’immagine e la sua rappresentazione. Non è dunque un caso se l’idea di partenza del film sia il reale ritrovamento di alcune immagini, sette fotografie rinvenute accanto al cadavere di un prete nell’Islanda di fine Ottocento».
Sul valore delle immagini, questa volta restituite da un paesaggio che è quasi protagonista, si sofferma anche la riflessione di Raffaele Meale pubblicata su Quinlan. Afferma così il critico: «tra le sorprese più inaspettate della settantacinquesima edizione del Festival di Cannes si può annoverare anche il nuovo film di Hlynur Pálmason: per quanto sia Winter Brothers (2017) che A White, White Day – Segreti nella nebbia (2019) abbiano infatti i loro numerosi estimatori – anche in campo festivaliero, visto che l’esordio vinse il premio per l’interpretazione maschile a Locarno e l’opera seconda un riconoscimento analogo alla Semaine de la Critique, per poi trionfare al Torino Film Festival -, è sempre sembrato mancare qualcosa al cinema del giovane regista islandese, soprattutto nella capacità di costruire personaggi per i quali fosse possibile creare una forte empatia, al di là delle loro zone d’ombra».
Tema, questo, analizzato anche da Alessandro Ronchi per Gli spietati: «Giacomo Leopardi sapeva il fatto suo. Se desiderava illustrare il concetto di “natura matrigna” non a caso la faceva dialogare, nelle Operette Morali, con un islandese. Non c’è paesaggio – in Europa, almeno – tanto preso da rivolgimenti tellurici e dall’ostinazione al deserto dove l’uomo appare una presenza così fuori luogo. È in questo paesaggio liminare, insieme primordiale e escatologico (il suo paesaggio natale) che Hlynur Pálmason, al terzo lungometraggio, decide di ambientare il proprio personale Cuore di tenebra».
di Ignazio Senatore