Animali Selvatici
Le recensioni di Cristiana Paternò ed Emanuele Rauco, seguite dalla rassegna stampa a cura di Simone Soranna riguardo ad Animali selvatici, di Cristian Mungiu, Film della Critica per l'SNCCI.
Animali selvatici di Cristian Mungiu, distribuito da Bim Distribuzione, è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani (SNCCI) con la seguente motivazione:
«In un villaggio della Transilvania, al centro dell’Europa, ma dentro un mondo che si fatica a comprendere, tra lavoratori emigrati in Germania di ritorno a casa, comunità di ungheresi percepite come straniere e immigrati dall’Asia, la società multietnica e globalizzata costringe la moderna Romania ad affrontare i fantasmi del cambiamento. Implacabile osservatore delle dinamiche storiche, economiche e sociali, Cristian Mungiu gira un altro film straordinario: la risonanza magnetica di una nazione».
La recensione
di Cristiana Paternò
Con un virtuosistico piano sequenza di 17 minuti in cui un intero villaggio – molti qui sono gli attori non professionisti – si confronta su un tema fortemente conflittuale, Cristian Mungiu conferma la sua maestria registica. Il cineasta rumeno, vincitore della Palma d’oro nel 2007 con il dramma dell’aborto 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni prosegue l’analisi impietosa delle contraddizioni del suo paese e, in questo caso, dell’intera Europa, con un racconto fortemente politico ma anche dotato di potenza simbolica.
Il rissoso e insoddisfatto Matthias, dopo aver perso il lavoro in una fabbrica in Germania, torna nel suo paese d’origine a pochi giorni dal Natale. La sua è una cittadina di confine in Transilvania. Suo figlio Rudi viene cresciuto dalla ex moglie, mentre lui vorrebbe educarlo a modo suo, renderlo più forte e maschio. Nel frattempo, suo padre si scopre gravemente malato e la sua ex amante, Csilla, che gestisce una piccola azienda alimentare, assume alcuni immigrati, malvisti dal resto della comunità locale.
Al cuore del film, come prefigurato da una scena iniziale che si svolge nella foresta circostante, c’è l’impossibilità di esercitare un controllo su paure irrazionali e pulsioni nascoste, così come solo una risonanza magnetica può diagnosticare certe malattie (il titolo originale del film, R.M.N., rimanda proprio all’esame clinico a cui si sottopone il padre del protagonista).
Mungiu orchestra una narrazione corale tenuta viva da una tensione costante, tipica del suo cinema, che è sempre cinema della minaccia come, ad esempio, nel magnifico Un padre, una figlia (2016).
Fedele al suo stile, l’autore rumeno procede per sottrazione, sceglie di non spiegare sempre i sentimenti e tantomeno le azioni dei personaggi, lascia margini di ambiguità e inconsistenza per poi raccogliere gli indizi seminati lungo il percorso in un unicum coeso che dà senso, retrospettivamente, al tutto.
La recensione
di Emanuele Rauco
Per una volta, mettiamo da parte il lato politico di Animali selvatici, il nuovo film di Cristian Mungiu, la sua precisione chirurgica e spaventosa nel raccontare la Romania e l’Europa di oggi, le forze con cui la democrazia diventa populismo sacrificando ragione e civiltà: se ne è già parlato a lungo, giustamente, quando il film fu presentato a Cannes. Soffermiamoci allora sul suo stile, sulle scelte di regia e messinscena che rendono questo, forse (almeno per chi scrive) il più bello dei film di uno dei maggiori registi contemporanei.
La trama parte da una visione negata, ossia quella di un bimbo che nel bosco vede qualcosa che lo conduce a un traumatico e ostinato silenzio. A partire da qui si dipana un intreccio che vede protagonista tutta la comunità locale (paesino isolato nella profonda Transylvania), cominciando dal padre fosco e violento, figlio di una società ottusa e razzista che si oppone alla presenza di lavoratori stranieri. Mungiu, che cura la sceneggiatura da solo, fa con le immagini e i suoni ciò che un grande romanziere fa con le parole, ossia li mette insieme per costruire un mondo narrativo, tematico e soprattutto estetico potente ed espressivo.
Partiamo dal formato: il direttore della fotografia Tudor Vladimir Panduru compone i quadri con un ampio Panavision, (2,39:1), un po’ più largo e stretto del classico formato panoramico. Questo permette a Mungiu di immaginare inquadrature larghe e complesse, stratificate nei piani grazie alla profondità di campo, come se stesse filmando un affresco in movimento, in questo modo l’ampiezza delle immagine si sposa con la sempre crescente ampiezza e penetrazione del discorso. È un modo di pensare l’inquadratura che permette al regista di sfruttare al meglio la sequenza come unità e il piano sequenza come tratto distintivo: ogni singola scena, anche la più transitoria e apparentemente funzionale, sembra immaginare un mondo che si svela a chi guarda, ha la densità e il respiro degli elementi non detti e non visti, quei segreti che permettono la comprensione.
Esemplare è l’assemblea municipale: un’inquadratura fissa di circa un quarto d’ora, dentro la quale immobile si muove tutto il film, il suo rapporto tra campo e fuori, tra le parole e la loro eco, tra il tutto visibile e il mistero delle immagini negate. Capolavoro dentro un capolavoro.
Una breve rassegna della stampa italiana sul film
(a cura di Simone Soranna)
A cominciare dal Festival di Cannes 2022, edizione in cui il film di Mungiu venne presentato in Concorso, la critica italiana si è espressa assai favorevolmente nei confronti della pellicola.
Marco Romagna, su Cinelapsus, afferma che il film è Il risultato è «stratificato e ambiziosissimo, di una bellezza disturbante e cristallina, che mette in scena nel consueto nitore dei pianisequenza rumeni (basterebbero i quasi venti minuti in camera fissa della già memorabile scena dell’assemblea cittadina, che in qualche modo con il loro campionario di secolari pregiudizi e di multiformi ipocrisie rilanciano e rispondono, a distanza di un anno, al “processo” scolastico del Bad Luck banging or loony porn di Jude) una storia di emigrazioni e di ritorni, di genie che si scontrano e di continue contraddizioni sociali, di coppie e di generazioni che si sembrano ritrovarsi solo per potersi poi ancora perdere». Gli fa eco Lorenzo Rossi, che sulle pagine di Cineforum afferma: «Mungiu riflette con straordinaria complessità proprio sul tema della dispersione, costruendo un film fatto di percorsi divergenti e inconciliabili dei quali il protagonista – scisso, senza un vero posto nel mondo eppure capace di abitare le case di tutti e entrare, letteralmente, in ogni inquadratura – si pone come il simbolo più evidente».
Roy Menarini, sul suo personale sito di recensioni, esalta il nome del regista annoverandolo tra quelli dei più importanti in attività: «pur ammirato, Cristian Mungiu non viene ancora considerato – come dovrebbe essere – uno dei grandi maestri del contemporaneo (magari insieme agli altri talenti dell’onda rumena, tuttora in formissima)». Aldo Spiniello invece, per conto di Senteri Selvaggi, prova a spostare la lente critica sul tema linguistico del film. Scrive il critico: «il discorso linguistico di Mungiu, anche nell’apparente indifferenza di tono, è cristallino. Emblematico, appunto… Perché il suo cinema va sempre in cerca dell’esemplare, del momento in cui il particolare e il generale coincidono. In cui i comportamenti dei singoli, persino microscopici, sono lo specchio esatto di determinate dinamiche sociali e politiche. Così da raccontare l’essenza profonda di un paese».
Raffaele Meale invece incanala perfettamente il film all’interno della filmografia del suo autore, sottolineando però delle lievi discrepanze con il passato. Afferma infatti così sulle pagine di Quinlan: «realtà e allegoria, racconto concreto e morale. Si muove su due linee parallele e non necessariamente convergenti Mungiu, che rispetto alle opere precedenti compie una piccola rivoluzione narrativa – che diventa nei fatti anche estetica. Contrariamente a quanto accaduto in 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, Oltre le colline, e il già citato Un padre, una figlia, in Animali selvatici Mungiu non pone lo sguardo della macchina da presa all’altezza di un unico personaggio da pedinare in modo quasi ossessivo, costringendo dunque la prospettiva a farsi unica; parlando di spaesamento, e di intercultura, in questa occasione viene prediletto un approccio più dialettico, quasi corale».
Dello stesso avviso è Federico Pedroni, il quale scrive così su Duels: «Mungiu riunisce tante piccole storie personali, che fa attraversare dal suo protagonista, per arrivare, come in un teorema, a una visione più ampia, frantumata nella sua esplosività contraddittoria. Il film ha un andamento frammentario che via via si ricompone passando da un andirivieni tra i vari personaggi per giungere al lungo piano sequenza del pre-finale, in cui tutti si ritrovano nell’assemblea cittadina che eleverà la temperatura del conflitto. Sembra proprio questa la tensione primaria di Animali selvatici: l’impossibilità di ricomporre le molteplici fratture (sentimentali, sociali, umane, linguistiche) che hanno ridotto la collettività a uno specchio infranto».
di Cristiana Paternò ed Emanuele Rauco