Tre colori – Film bianco
La recensione di Tre colori - Film bianco, di Krisztof Kieslowski, a cura di Gianlorenzo Franzì.
Siamo fatti di ricordi, e non della materia di cui sono fatti i sogni: perché i ricordi sono visioni, parole, suoni. Insomma, il nostro denso di identità è dato proprio da ciò che ricordiamo e dal modo in cui lo ricordiamo (Hermann Schmitz). Certo che la memoria non deve però essere confusa con la realtà oggettiva, in quanto ne è ricostruzione anche se certamente non meno tangibile con le nostre emozioni. Anzi, si potrebbe arrivare a dire che quella realtà oggettiva non esiste, perché l’unico modo di poterla percepire è attraverso la nostra soggettività: ma è questo filtro che gli dà significati.
Krisztof Kieslowski è riuscito a drammatizzare le idee, non le ha raccontate. La sua visione -del mondo, delle relazioni, delle emozioni- viene fatta vivere allo spettatore come se fosse un’esperienza.
Film Bianco è probabilmente il più ambiguo della Trilogia dei Colori, per quel significato da dare all’uguaglianza sfuggente e sfumato: e nello stesso tempo è il meno metafisico, dotato di un’ironia affilata e sorniona che lo rende una delle opere più affascinanti del regista.
È l’ironia che restituisce la giusta prospettiva: perché sia nel Film Blu che nel Film Rosso la verità dell’affermazione passa attraverso la sua negazione, attraverso rovesciamenti di senso.
Kieslowski lavora sul colore rendendolo forma, drammatizzandolo, tramutandolo in un’assenza e costruendo la narrazione in sottrazione: arrivando al paradosso di prosciugare il tono della commedia per irrorarlo con la tragedia sociale. E insieme dissemina come al solito segni e simboli lungo tutto il racconto, mentre con un sentimento sornione rende il suo Film Bianco insolitamente politico, colmando a modo suo la distanza tra il comunismo che non c’è più e un liberismo sempre più attuale ma insieme devastante sul piano etico.
di Gianlorenzo Franzì