Pordenone Docs Fest – Le voci del documentario (16ª edizione)
Una panoramica sui film presentati e premiati.
Si è concluso il Pordenone Docs Fest – Le voci del documentario (29 marzo – 2 aprile). Giunto alla 16ª edizione, il festival svolge annualmente un lodevole lavoro nel promuovere la forma documentaria. In 5 giorni di programmazione, nella storica sede di Cinemazero, sono state proposte 25 anteprime nazionali e 3 anteprime mondiali. L’essenza cinematografica ed etica della kermesse è ben sintetizzata dal Direttore artistico Riccardo Costantini: «Un festival inclusivo, accogliente, attento all’ambiente, giovane e particolarmente sensibile nel riconoscere il ruolo delle donne».
In questa edizione, che ha registrato 3000 biglietti venduti e 5000 presenze complessive, i documentari proposti hanno rappresentato 28 nazioni del mondo. Opere che sono state vere e proprie finestre su differenti realtà: di genere, di territori, del presente e del passato, con a volte uno sguardo speranzoso verso il prossimo futuro. Ampio spazio alle donne, con opere che hanno raccontato differenti storie di soprusi e/o emancipazioni. Se il turco My Name Is Happy di Nick Read e Ayse Toprack mette in rilievo il predominante femminicidio, attraverso la tragica storia di Mutlu Kaya (e di sua sorella), l’iraniano Destiny di Yaser Talebi lascia intravedere, con il personaggio della giovane Sahar, un’esile speranza d’indipendenza personale, in un paese ancora legato a concezioni patriarcali. Riscatto raggiunto, invece, nel francese Juste Charity di Floriane Devigne. Il film racconta la vita della nigeriana Charity che, obbligata dapprima alla prostituzione, facendosi coraggio denuncia tale pratica di schiavismo.
Diversa la liberazione narrata in Sexual Healing di Elsbeth Fraanje, in cui una donna disabile di mezza età, Evelien, grazie a una serie di consulenze con assistenti terapeutici, può finalmente provare le gioie del sesso. Una menzione a parte per lo spagnolo Cantando en las azoteas di Enric Ribes Reig, un colorato e delicato ritratto della drag queen Gilda Love, ormai novantenne e in stato di quasi indigenza, ma sempre con un sorriso sulle labbra. Un piccolo documentario che rievoca il nostrano Splendori e miserie di Madame Royale di Vittorio Caprioli e con Ugo Tognazzi.
Nella sezione collaterale “Donne con la macchina da presa”, il programma ha raccolto 8 misconosciuti lavori documentaristici italiani, di produzione indipendente, realizzati tra il 1973 e il 1981. Benché realizzati con pochi mezzi, sono documentari di lotta, d’informazione e finanche di ausilio su aspetti a quel tempo poco trattati. Oggi sono dei preziosi reperti che ci consentono di vedere com’era la situazione in quegli anni. Le opere scelte: L’aggettivo donna e La lotta non è finita del Collettivo Femminista Cinema; Marisa alla Magliana di Maricla Boggio; Donne da slegare di Armenia Balducci, Maria Paola Maino e Marlisa Trombetta; È solo a noi che sta la decisione di Isabella Bruno; Scuola senza fine di Adriana Monti; Non ci regalano niente di Rosalia Polizzi; I fantasmi del fallo di Maria Grazia Belmonti, Annabella Miscuglio, Rony Daopoulo.
A ciò si aggiunge il piccolo omaggio a Valeria Sarmiento, regista, montatrice e sceneggiatrice cilena. Una parziale retrospettiva che ha dato la possibilità di poter saggiare l’operato dell’autrice, con il cortometraggio Un sueño como de colores (1972), il corto La dueña de casa (1975) e il lungometraggio El hombre cuando es hombre (1983). Infine, emancipazione femminile mostrata anche con la proiezione del famigerato La vera gola profonda (Deep Throat, 1972) di Gerard Damiano e con Linda Lovelace. Pellicola anticipata, qualche giorno prima, dal documentario Inside Gola profonda (2004) di Fenton Bailey e Randy Barbato.
Tra gli sguardi sulle realtà del passato: L’art du silence di Maurizius Staerkle Drux, ritratto sulla formidabile e inimitabile arte mimica di Marcel Marceau; Kapr Code di Lucie Králová, un accattivante e musicale biopic sul compositore cecoslovacco Jan Kapr; Invoked di Luka Papić e Srđa Vučo che, attraverso un denso quanto curioso materiale d’archivio, mostra le bizzarre prime elezioni libere in Serbia, nel 1991. Mentre Moosa Lane di Anita Mathal Hopland è un “diario filmato” che racconta quindici anni di vita familiare e le differenze di concezione sociale tra Pakistan e Danimarca. Completamente immersivo, invece, The Camera of Doctor Morris di Itamar Alcalay e Meital Zvieli, opera che riporta alla luce e assembla gran parte dei filmini realizzati dal dottor Morris dagli anni ’60 agli anni ‘70, che mostrano spezzoni di vita familiare (non sempre felici) in Israele.
Viceversa, gli sguardi verso il presente sono cupi, poiché ci mostrano torture, guerre, capitalismo e inquinamento. Lost Souls of Syria di Stéphane Malterre e Garance Le Caisne, con uno stile che mescola reportage e dinamica narrazione cinematografica, mette in evidenza una terribile situazione in Siria: oltre 27000 civili sono stati torturati dal regime. Il cileno Vida férrea di Manuel Bauer è un viaggio dentro la realtà mineraria e paesaggistica del Perù, in cui un treno incede sferragliante per il paese, mostrandoci gli abitanti e le cittadine morenti. The Oil Machine di Emma Davie è un’opera che ci informa sul petrolio e tutta la filiera della lavorazione e dell’utilizzo, e su come il mondo potrebbe cambiare nel momento in cui questa risorsa finirà.
When Spring Came to Bucha di Mila Teshaieva e Marcus Lenz è un reportage girato poco dopo i fatti di Bucha. I registi, con toni asciutti e giornalistici, ci mostrano cosa resta dopo i bombardamenti, tra edifici distrutti, saccheggi, cadaveri, gente logorata ma combattiva. Distante dai precedenti, ma con acclusa in filigrana una disamina politica, è White Balls on Walls di Sarah Vos, un “backstage” su di un museo, con tutte le problematiche, non solo artistiche, che comporta (ma che noi pubblicamente non vediamo).
Altra interessante sezione del Pordenone Docs Fest, presente da quest’anno, è il segmento festivaliero “Italian Doc, Future!”, in cui i documentari presentati sono squarci su determinate realtà italiane. Corpo dei giorni del collettivo Santabelva è un film su un ergastolano che esce dal carcere durante la pandemia; Tara di Francesca Bertin e Volker Sattel, ambientato a Taranto, è una riflessione ecologista in una città schiacciata dall’inquinamento del Moloch Ilva; Il posto di Mattia Colombo e Gianluca Matarrese affronta il problema del lavoro, attraverso la forma dell’on the road.
Retrospettiva interessante anche quella dedicata al giovane filmmaker milanese Alessandro Redaelli, con la proiezione di tre suoi documentari: Funeralopolis (2017), strano miscuglio in bianco e nero di musical, comico e dramma; Game of the Year (2021), cronaca a 360º sull’avanzamento dei videogiochi in Italia; e Positivə (2021), diario di 4 persone con l’HIV che non vogliono essere messe da parte.
Da includere in questa panoramica anche quelle opere sparse non presenti nelle sezioni sopracitate. Il cerchio di Sophie Chiarello è un documentario non sui bambini, ma con i bambini, ed espone problematiche dell’infanzia e dell’essere genitore. Ulderica – Frute di mont di Stefano Giacomuzzi ritrae, in meno di mezz’ora, l’artista Ulderica da Pozzo. Reznica di Davor Marinkovic è un brevissimo vaglio sulla quotidianità attuale della Serbia. Il documentario di chiusura Arrivederci, Berlinguer! di Michele Mellara e Alessandro Rossi è un rimontaggio, con aggiunta di nuovo materiale e musiche di Massimo Zamboni, dell’Addio a Enrico Berlinguer (1984).
Oltre a questa variegata e magmatica offerta filmica, al Pordenone Docs Fest ci sono state molte altre iniziative, tra le quali, oltre a quella molto interessante dedicata alla realtà virtuale, con una masterclass presieduta da Alessandro Redaelli, la mostra fotografica di Mattia Balsamini, le altre masterclass, l’incontro con l’ex giocatore di basket Enes Kanter che ha raccontato la sua storia di libertà, la prima edizione del laboratorio “Nord/Est/Doc/Camp” e diversi concerti musicali.
In piazza Cavour è stato installato uno spazio in cui la gente, gratuitamente, poteva approcciarsi alla realtà virtuale, attraverso un menù di varie simulazioni che permettevano di testare la qualità raggiunta dalla VR, e dar modo di mostrare le differenti utilità della medesima: un mezzo per divertirsi, oppure per comprendere maggiormente le problematiche di un determinato argomento, magari socio-politico.
I film vincitori della 16ª edizione del Pordenone Docs Fest
Gran Premio della Giuria: Moosa Lane di Anita Mathal Hopland. Motivazione: «La vita e le immagini si incontrano in un progetto decennale all’interno del quale trovano spazio le vicende familiari di una giovane donna, la questione delle origini, dell’identità fragile e a volte contraddittoria degli apolidi, dei profughi e delle seconde generazioni figlie dei flussi migratori. Uno specchio del presente in cui si riflettono controversie e tratti di unione tra culture diverse e distanti. Un esempio luminoso di cinema nel suo farsi, aperto, libero, epifanico». Giuria: Valeria Sarmiento, Beatrice Fiorentino, Costanza Quatriglio.
Menzione speciale: When Spring Came to Bucha di Mila Teshaieva e Marcus Lenz. Motivazione: «Un reportage di guerra che si addentra nel dramma del conflitto in Ucraina schivando la retorica e l’esibizione del dolore, cercando invece nel profondo senso di comunità, nella dignità della popolazione civile e nelle piccole azioni quotidiane il centro più nobile della resistenza».
Green Documentary Award: The Oil Machine di Emma Davie. Motivazione: «Per la capacità di restituire la complessità della crisi climatica dando voce a scienziati, esperti, economisti e attivisti senza dimenticare il punto di vista delle compagnie petrolifere e dei lavoratori che temono di perdere il proprio lavoro. È un film che apre al dialogo e al confronto su una questione epocale, da cui dipende il futuro di noi esseri umani sul pianeta».
Premio della Critica SNCCI: Vida férrea di Manuel Bauer. Motivazione: «Per la magistrale capacità di racconto e la precisione dell’analisi del contesto socio-economico di un paese sfruttato dal sistema capitalistico». Giuria: Roberto Baldassarre, Massimo Lechi, Riccardo Lo Re.
Young Audience Award: Cantando en las azoteas di Enric Ribes Reig. Motivazione: «Racconta diversi aspetti dell’inclusività, mostrando che la cura e l’amore possono superare ogni barriera: di età, di sessualità, di origini. Dimostra che è possibile generare un legame che unisce più generazioni, e lo fa attraverso un ritratto delicato, sincero ed emozionante».
Premio del pubblico: L’art du silence di Maurizius Staerkle Drux.
Premio Virtual Reality: Myriad di Michael Grotenhoff e Christian Zipfel, il racconto delle incredibili migrazioni degli ibis eremita, reintrodotti in natura quando si pensavano estinti: è stato questo il titolo più apprezzato da chi ha visitato lo spazio dedicato alla realtà virtuale in piazza Cavour.
di Roberto Baldassarre