Ferrari
La recensione di Ferrari, di Michael Mann, a cura di Emanuele Di Nicola.
Non è lesa maestà dire che Ferrari è un film controverso: Michael Mann, uno dei maggiori cineasti viventi, lo insegue nel tempo e lo chiude oggi a 80 anni, segnando il ritorno sullo schermo.
Quattro mesi nell’estate 1957. Enzo Ferrari è in crisi con la moglie Laura, in seguito alla morte del figlio Dino, e la tradisce con l’amante Lina con cui ha avuto un altro figlio, Pietro che sarà il futuro Pietro Ferrari. Ma soprattutto Enzo ha una fissazione: costruire la macchina perfetta che possa battere la concorrenza e vincere la Mille Miglia. Per farlo, come scrisse un giornale, “Saturno divora i suoi figli”, ovvero sacrifica le vite dei piloti nelle prove guardandoli impassibile, perché dopo la scomparsa della prole ormai schermato dal sentimento. È proprio la Morte la grande presenza assente, la nera signora che accompagna come un’ombra Ferrari e questo ultimo, forse definitivo, film di Mann. Un film che guarda in faccia la Fine. L’ingegnere arringa i suoi piloti spiegando che la morte fa parte della corsa, è compresa nel gesto, perché vincere significa frenare un attimo dopo: è il rito di fondazione della Formula Uno, l’inizio della spoon river per una disciplina intinta nel sangue.
Vedere Ferrari, in prima battuta, prima di smontarlo e storicizzarlo, porta nell’incipit lo stesso disagio di The House of Gucci: il cortocircuito recitativo tra italiano e inglese, la medesima strana dissonanza. Ma dopo poco si capisce che serve anche ad estrarre la questione, rendendo Ferrari una figura mentale, uno state of mind. Tutto ciò che Mann rappresenta e l’aggettivo “manniano” si ritrova in questo film-mito: l’atto estremo che fissa la morte, l’impresa come folle volo di Icaro, da cui non ci si libera finché compiuta, come era per il pugile Alì, l’intervento improvviso del destino. La doppia corsia che si intreccia qui riguarda il capo e il pilota, la mente e il braccio, Ferrari e Alfonso de Portago, come in uno specchio tra il dramma del commendatore e la tragedia del pilota spagnolo.
Il film soffre di una scrittura problematica nella prima parte, nella crisi coniugale Driver-Cruz, nelle geometrie di un triangolo troppo detto. Poi, quando inizia il race, ecco la ricostruzione d’epoca da memorabilia, non c’è più nulla da dire ma solo da guardare. Mann firma il tassello mancante della sua carriera, riscrive il film di corse automobilistiche, figlio tanto dello sport movie che del cinema di inseguimento. All’insegna di un’ossessione profonda e abissale. La corsa di Jericho diventa la corsa di Enzo, che può finire in un solo modo: con la vittoria e la morte. L’incredibile incidente finale è irraccontabile, va visto a occhi spalancati. È la mano del Fato che buca la gomma.
Ogni fotogramma di Mann mentre si mostra è già classico. E l’epica manniana sceglie di chiudersi in un cimitero, ricomponendo il body double tra un bimbo vivo e uno morto, portando un mazzo di fiori a un fantasma. Un film grande, difficile, divisivo, che quando apre le ali conferma chi è il suo autore, nella Storia del cinema e dello sguardo.
di Redazione