Felicità
La recensione di Felicità, di Micaela Ramazzotti, a cura di Isabella Insolia.
In un’edizione del Festival di Venezia in cui la presenza di registe donne è alquanto scarsa, è bene segnalare l’opera prima di Micaela Ramazzotti la quale ha presentato al Lido Felicità, segnando così il suo debutto dietro la macchina da presa. Il film, co-scritto dall’attrice e regista romana insieme a Isabella Cecchi e Alessandra Guidi, racconta di una famiglia disfunzionale in cui i figli sono vittime inermi di genitori inadeguati ed egoisti.
In Felicità tutto ruota attorno alla squilibrata famiglia Mazzoni che vive nei palazzoni dormitorio nella periferia di Fiumicino. È qui che incontriamo il padre Max (Max Tortora), un uomo infelice e senza talento che prova disperatamente a sfondare nel mondo dello spettacolo con imbarazzanti risultati, e la madre (Anna Galiena), patologicamente iper protettiva nei confronti del figlio Claudio (Matteo Olivetti) e costantemente in combutta con la figlia Desiré (Micaela Ramazzotti). Quest’ultima è una parrucchiera sui set cinematografici che, a differenza del fratello, ha lasciato il tetto materno ed è andata a vivere con il compagno Bruno (Sergio Rubini), un uomo molto più grande di lei nonché professore universitario.
Felicità pone l’accento su molteplici tematiche: dal fallimento genitoriale all’instabilità di una relazione sentimentale, passando per la malattia mentale. Un film che parla di amore fraterno e di amor proprio, delle ripercussioni devastanti sulla sanità mentale che hanno il disamore e le pretese dei genitori verso i figli. Uno scontro familiare ma anche generazionale tra personaggi privilegiati che non vedono e non conoscono l’incertezza del futuro e chi non trova un punto di riferimento in chi dovrebbe garantirgli una guida e un sostegno costante in una società disorientante. Micaela Ramazzotti è brava e intelligente nel restituire quel disagio familiare e quella genitorialità inferma comuni in molteplici contesti, così come è abile nel maneggiare con cura l’instabilità mentale, regalando al pubblico intensi primi piani con i quali raggiunge picchi di intensità emotiva.
Il merito della riuscita di Felicità non va solamente alla sceneggiatura e alla regia, ma anche alla prova recitativa degli attori. Olivetti è sorprendente nei panni di Claudio, restituendone il dramma interiore ed il malessere sociale; Galiena è algida nelle vesti di una madre inadeguata; Tortora eccelle nel farsi odiare, pare strano, eppure sì, Max Tortora è un padre odioso, un mostro, un razzista omofobo con il quale è impossibile empatizzare, ma c’è un momento, uno solo, sul finale, durante la reinterpretazione di Felicità, ta ta, in cui ho provato pena per la sua inettitudine; Rubini è calzante nei panni del classico professore radical chic che prova a salvare la compagna senza riuscire a darle conforto; Ramazzotti conferma di essere una delle attrici più autentiche e talentuose della nostra cinematografia, la sua Desiré non si discosta dai tanti personaggi che ha interpretato durante la sua carriera, ma riesce a donarle un decoro e una dignità commovente.
Felicità, in definitiva, si presenta come un’opera attenta e ben lavorata che racconta la periferia romana e affronta tematiche dal forte impatto emotivo attraverso una comicità amara. Ramazzotti innesta argomenti attuali e urgenti all’interno della nostra società rispolverando quella comicità all’italiana che aveva fatto grande il nostro cinema, portando sul grande schermo il disagio e la depressione giovanile, la precarietà e la disoccupazione, le relazioni tossiche e la mediocrità educativa genitoriale. Se queste sono le basi, la strada di Ramazzotti dietro la macchina da presa è spalancata.
di Isabella Insolia