Fai bei sogni

Nel nome della madre. Tante volte, anche in tempi recenti, il cinema d’autore, in Italia come all’estero, si è confrontato con la forza e il peso della figura materna: una sfida di sicuro assai impegnativa e non sempre coronata dal successo. Dopo Mia Madre di Nanni Moretti (che a nostro personale parere resta un film non del tutto risolto sul piano narrativo, nonostante la grande prova di Giulia Lazzarini) ci prova ora Marco Bellocchio, il quale affida per l’occasione il suo vissuto alla mediazione di un’altra vicenda umana, quella raccontata dal best- seller (1.350.000 copie vendute) del giornalista, scrittore, nonchè personaggio televisivo Massimo Gramellini: un’ ’’autobiografia altrui’, avrebbe detto Tabucchi. Del resto, come ha dichiarato il regista, nella decisione di dirigere Fai Bei Sogni l’enorme successo editoriale del libro non ha avuto peso. A interessarlo erano invece altri elementi: l’amore intenso ed esclusivo tra la madre e suo figlio – un amore che non aveva mai conosciuto, ma che aveva ritrovato nel libro e voluto ricreare nel film – e il dramma di un bambino di 9 anni che perde la madre ma si vede negata per moltissimi anni la verità di quella morte che lo spettatore, invece, conosce, o quantomeno intuisce, sin dall’inizio.
Segreti e bugie, dunque. La famiglia come prigione e istituzione totale e la ribellione dei figli contro le madri (e contro i padri) rappresentano da oltre 50 anni (precisamente da “I pugni in tasca”, 1965), tra i punti nodali della lunga e importante filmografia di Bellocchio. Il quale, al giro del nuovo secolo e millennio, era tornato con forza, e con più raffinata capacità formale ed espressiva¸ a trattare questi temi, in particolare quello dell’ “assenza” materna, in film come La balia (1999) e L’ora di religione. Il sorriso di mia madre (2002).
Purtroppo, Fai bei sogni risulta solamente in parte un film “bellocchiano”, e più precisamente solo nelle sequenze che ritraggono l’infanzia e l’adolescenza del protagonista Massimo (è là che, ancora una volta, la fotografia di Daniele Ciprì, con le sue sfumature e i suoi chiaroscuri, esalta le scelte narrative e stilistiche della regia).
Ma le vicende (come già nel libro) coprono in realtà un arco temporale trentennale – dal 1969 al 1999 – attraversando la storia di una città simbolo come Torino (e in controluce, ma fugacemente, quella italiana). Nonostante il fluido montaggio di Francesca Calvelli, il racconto (sia pur ridotto rispetto alla versione che aveva inaugurato quest’anno la Quinzaine a Cannes) che vede Massimo in età adulta nel suo ruolo di giornalista in carriera ci è apparso invece davvero lontano dalla cifra autoriale di Bellocchio. Il principale punto debole è qua a nostro avviso la sceneggiatura (che il regista firma insieme a Valia Santella ed Edoardo Albinati). Oltre a una serie di luoghi comuni e approssimazioni che riguardano le sequenze dove vediamo il protagonista inviato speciale nella guerra dei Balcani, è proprio il percorso umano di “guarigione” da quella ferita antica – che pure era nelle intenzioni dichiarate di Bellocchio – a risultare incongruo e comunque non sufficientemente sviluppato.
Valerio Mastrandrea cerca di fare il possibile – in un ruolo non proprio in linea con le sue corde migliori – per restituire la figura di un uomo che nella corazza che ha dovuto creare verso il mondo esterno e verso l’amore, nella rabbia a stento repressa e nei ricorrenti attacchi di panico, rivela le tracce di un passato doloroso, e mai passato davvero. Ma è soprattutto lo spessore narrativo del personaggio di Elisa, una donna sulla carta finalmente diversa e solare, a far difetto (senza contare la scarsa credibilità delle circostanze del loro incontro). E non bastano a riempire il vuoto la freschezza e i bei grandi occhi di Bérénice Bejo.
Un vero peccato, insomma. Tra l’altro, il tema di una “madre morta” che al tempo stesso, senza una completa elaborazione del lutto, resta per il figlio anche “assente” – temi questi ben trattati nel suo recente saggio “Le mani della madre” da Massimo Recalcati, che parla di una ingombrante “assenza sempre presente” – aveva risvolti di natura psicoanalitica assai potenti e congeniali al regista piacentino (e si pensi, rispetto però alla figura della madre “narcisistica” e al tempo stesso “cannibale”, a un film come Mommy, parimenti analizzato da Recalcati in quel saggio, dove il giovane e talentuoso Xavier Dolan riesce a dare il meglio di sé).
Di quel film altro che, magari abbandonando o tradendo la trama del romanzo di Gramellini, Fai bei sogni poteva essere e non è stato. rimangono comunque alcune immagini forti: dall’inquietante finale del gioco a nascondino con la mamma (Barbara Ronchi, che gioca bene l’essere sempre assorbita da altri e più gravi pensieri) a quel corridoio della casa immerso nella penombra e squarciato da lampi di luce, dal quale in soggettiva il bambino vedrà passare la bara della madre portata a spalla dai parenti in lutto. Poco memorabili, come i loro ruoli (a parte forse il cameo di Fabrizio Gifuni), restano invece le brevi e amichevoli apparizioni di attori del calibro di Piera Degli Esposti, Roberto Herlitzka, Roberto Di Francesco, Fausto Russo Alesi.
TRAMA
La storia di una difficile ricerca della verità e allo stesso tempo la paura di scoprirla. La mattina del 31 dicembre 1969, Massimo,nove anni appena, trova suo padre nel corridoio sorretto da due uomini: sua madre è morta. Massimo cresce e diventa un giornalista. Dopo il rientro dalla Guerra in Bosnia dove era stato inviato dal suo giornale, incontra Elisa. La vicinanza di Elisa aiuterà Massimo ad affrontare la verità sulla sua infanzia ed il suo passato.
di Sergio Di Giorgi