Evil Does Not Exist

La recensione di Evil Does Not Exist, di Ryūsuke Hamaguchi, a cura di Roberto Manassero.

C’è la natura, nell’ultimo film di Ryūsuke Hamaguchi, e c’è il modo in cui il cineasta giapponese (reduce dai premi a Cannes e dall’Oscar per Drive My Car) la filma. C’è una regione collinare poco distante da Tokyo, con i suoi boschi, i suoi torrenti, i suoi cervi da cacciare o lasciare in pace, e c’è una macchina da presa digitale che filma in modo solenne e impassibile ampie porzioni di spazio, con riprese dal basso di rami stagliati contro il cielo, carrelli laterali a seguire i movimenti nella foresta, musica d’accompagnamento che crea un’atmosfera dolce e languida, prima di interrompersi bruscamente.

Dentro questo scenario quasi bucolico, e dentro immagini precise che Hamaguchi ha sviluppato a partire da un progetto di videoarte (lo si nota soprattutto nei tempi dilatati, nei vuoti e nelle attese del racconto), ci sono anche gli abitanti di un villaggio rurale, tra i quali Takumi, tuttofare vedovo e padre di una bambina, che della sua zona conosce tutto, i luoghi, gli animali, il ritmo, il respiro.

E come il montaggio spezza le inquadrature e la musica, così il mondo di fuori arriva a distruggere un ecosistema apparentemente perfetto, quando una società di Tokyo propone di installare nei boschi un glamping, vale a dire una struttura ricettiva che unisce glamour e campeggio per turisti facoltosi. Nello scontro dialettico che nasce, tra natura e capitalismo, uomini e sfruttatori, ideale e profitto, lo stesso film di Hamaguchi riparte, si ripete e si spezza di continuo, arrivando a confondere (anche agli occhi dello spettatore) lirismo e morte, immaginazione e simbolismo. La vita, del resto, è questione di equilibrio, e così pure il cinema.


di Roberto Manassero
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