Estranei
Le recensioni di Paola Dei e Gaia Serena Simionati, seguite dalla rassegna stampa a cura di Simone Soranna, riguardo a Estranei, di Andrew Haigh, Film della Critica per l'SNCCI.
Estranei, di Andrew Haigh, distribuito da Walt Disney, è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI con la seguente motivazione:
«Raccontando il tormento interiore per la perdita dei genitori e la scoperta della sua omosessualità, Adam cerca una riappacificazione con se stesso, la famiglia e il mondo, attraverso la conoscenza di Harry. Andrew Haigh si conferma eccelso narratore contemporaneo dei sentimenti, grazie a una ricognizione spettrale dei protagonisti e un senso smisurato di perdizione tra sensi di colpa e amori fragili. Un film impalpabile sul dolore inconsolabile, dove la realtà perde i propri confini e il pensiero si fa immagine».
La recensione
di Paola Dei
Il regista e sceneggiatore britannico Andrew Haigh, che nella sua carriera si è occupato di tematiche legate all’omosessualità, a distanza di 6 anni dall’uscita dell’opera Charley Thompson del 2017, torna nelle sale cinematografiche italiane il 29 febbraio con un capolavoro dove indaga, attraverso il linguaggio onirico e allusivo della narrazione filmica, i desideri e le paure della generazione Queer nel XXI secolo. Distribuita da Disney con protagonisti gli attori Andrew Scott, Paul Mescal, Jamie Bell e Claire Foy, presentata ad Alice nella Città 2023, l’opera ispirata al romanzo Estranei Storia di Adam di Taichi Yamada, parla d’amore, di dolore, di accettazione, di separazione, di identità sessuale, attraverso una storia sospesa fra il melò e il fantasy, dove la vita dei protagonisti non rappresenta più la soluzione ma diventa la ricerca ansiosa del proprio essere nel mondo all’interno di un palazzo semivuoto.
Uno spaccato affascinante della psiche di Adam, il protagonista, che nel film è uno sceneggiatore solitario, e che vive in questo palazzo abitato da fantasmi e da molti spazi vuoti, nella periferia di Londra. L’ambientazione notturna, momento in cui Adam incontra Harry, unico abitante del palazzo in cui vive, rappresenta simbolicamente il bisogno del protagonista di affrontare un problema. La notte è l’ignoto, riflette parti della vita che non sono state completamente comprese ed elaborate. Herry è il Virgilio, il mezzo che permette ad Adam di entrare dentro di sé, esplorando paure, desideri, ricordi e l’impossibilità di aprire le porte all’alterità. Harry, dopo aver bussato alla porta di Adam, viene respinto per l’impossibilità di affrontare l’intimità., fin dalle prime scene, ma Adam lo fa entrare nel mondo dell’immaginazione, dell’inconscio.
Lo schermo diventa specchio, sperduti nel buio insieme al protagonista, intraprendiamo, un viaggio nel tempo e uno nello spazio all’interno di due storie d’amore. Partendo dal noto, la vita del protagonista Adams, entriamo nell’ignoto, nello spazio dove i fantasmi del sé, ben conosciuti da chi ha subito traumi importanti, divengono materia per realizzare un fantasy che costruisce, scena dopo scena, un legame fra il soggetto e un mondo al di fuori dei confini della razionalità: un equilibrio perfetto fra fantasia e memoria, fra realtà e immaginazione, fra materiale e immateriale con cui il regista ibrida i diversi generi di cinema.
Il vettore per raggiungere tutto questo è il corpo degli attori che vestono panni non solo mortali ma anche archetipali, simboli di una identità incerta che esprime le difficoltà di una comunicazione interrotta bruscamente da un trauma e che viene ristabilita per riaprire un dialogo fra un padre e un figlio, in un’epoca incerta fra tradizione e rinnovamento, mentre la madre, accogliente, lascia che la fragilità della relazione bruscamente interrotta, venga rivelata, al di là delle parole, da un linguaggio senza lingua. Le performances attoriali trasudano di vero cinema e che non sono solo azione ma si fanno coscienza e rappresentano un unicum avvolto in un bagno sonoro dove esplodono le meravigliose note di The Power of Love dei Frankie Goes, con la meravigliosa fotografia di Jamie D. Ramsey.
Attraverso i flashback espressionisti di Adam, tipici dei disturbi post traumatici dove si genera una dissociazione strutturale, che attingono all’Urlo di Much, il regista rivela, con una sola immagine, la materia del film: un singolo uomo nella sua angoscia diventa simbolo dell’intera umanità. Si tratta di un grido che viene dall’interno ed è più forte del frastuono del mondo. La figura trasuda angoscia, quella che si respira accanto ad una profonda dolcezza e tenerezza in tutte le sequenze dell’opera.
La recensione
di Gaia Serena Simionati
Un viaggio nell’invisibile. Nei sensi di colpa. Nella memoria, impalpabile. Potente. Commovente. Poetico.
Così narra il sorprendente libro del 1987, bestseller del giapponese Yamada Taichi, rivisitato nel film, al maschile, di Andrew Haigh, Estranei.
Raccontando il tormento interiore per la perdita dei genitori e la scoperta della sua omosessualità, Adam cerca una riappacificazione con sé stesso, la famiglia e il mondo, attraverso la conoscenza di Harry. Il primo, interpretato magicamente, intensamente da Andrew Scott, la sua performance segna vette ineguagliabili, toccanti. Anche solo per lo sguardo che è ricolmo di compassione, insicurezza, labilità emotiva e dolcezza, traghettata da un sorriso ineguagliabile, per osmosi col prossimo.
Andrew Haigh si conferma un sublime, perplimente bardo nell’economia dei sentimenti. Attuando una rivisitazione spettrale, fantasmagorica dei protagonisti scomparsi e un fluttuante, reciproco, esaustivo amore verso se stesso, i genitori e il prossimo, egli conduce il fruitore in un viaggio psicologico, dotato di una narrazione mai banale, bipolare e autentica. La ricerca è volta a risanare, rievocare, colmare il passato.
Grazie a una regia mista, onirica, inafferrabile o reale e paludosa, ammorbata da una fotografia lattiginosa, opalescente, il tuffo nel visivo degli anni 90 è perfetto. Cosi come la confusione ingenerata e quel senso di perdita di fuoco che in inglese si definirebbe blurred. Chi di noi non lo ha vissuto quel tentativo imberbe di restaurazione e rimpianto? Ecco il film è anche una restaurazione, celebrazione di passati sfuggiti di mano. Da ritoccare. Come fossero una foto in digitale mal riuscita.
Estranei è poi un film imponderabile. Arroccato sul dolore della perdita, lo sconfinamento delle barriere della solitudine, i sensi di colpa del rifiuto, dell’allontanamento in cui, il rapporto tra pensiero, realtà, identità si smarrisce sempre più. Insomma un piccolo grande capolavoro nel cui svolgimento l’alterità delle emozioni, l’io – non io, predominano nel ping – pong tra società e individuo, tra interno/ coscienza, esterno /percezione altrui.
Le musiche sono una chicca a sè. Scelte con cura maniacale nell’innalzare quel senso di rammarico già sollevato dal film, fanno viaggiare su binari dell’eleganza del ricordo, del cosidetto tuffo al cuore. Tra di esse, che si ascoltano con la stessa nostalgia con cui Proust mangerebbe una Madeleine, ci sono l’indimenticata You are always on my mind dei Pet shop boys, poi Death a party dei Blur e The Power of Love di Frankie Goes to Hollywood. La loro perfezione è dovuta anche alla perfetto fitting con i temi esploranti in quel preciso momento visivo, tale per cui al Music Editor facciamo un applauso di ringraziamento. Esse riportano dalla storia personale alla società che fu. Riescono a smarrire anche noi in quello che ad oggi ci sembra davvero un passato e un mondo migliore. Quello degli anni 90.
Una breve rassegna della stampa italiana sul film
(a cura di Simone Soranna)
La stampa italiana ha amato il film di Andrew Haigh. Simone Emiliani, di Sentieri Selvaggi, loda la messa in abisso stratificata e disorientante del film, affermando che «guarda le stelle il cinema di Andrew Haigh. Ci arriva come una specie di miracolo improvviso. Tutto nasce, tutto muore, tutto rinasce. Come nell’universo. Dal videoclip in tv interrotto all’inizio fino al finale esplode The Power of Love dei Frankie Goes to Hollywood. Il brano, come le altre canzoni, sembra già un testo di una sceneggiatura su più livelli, dello stesso Haigh. Comincia, si sviluppa, si interrompe, riparte, si riferma, torna alla prima riga, come quella a cui sta lavorando Adam, che scrive per il cinema e la tv: “Esterno, villetta di periferia, 1987″».
Gli fa eco Roberto Manassero, quando sulle pagine di Cineforum scrive che «la bellezza di Estranei, il profondo senso d’empatia che genera nei confronti del suo protagonista Adam (uno sceneggiatore quarantenne di Londra), risiede probabilmente nell’estrema coerenza narrativa e visiva con cui Andrew Haigh ha tradotto le pagine dell’omonimo romanzo dello scrittore giapponese Taichi Yamada. Tutto il film del regista inglese sta racchiuso nella testa di un uomo (interpretato da Andrew Scott) incapace di entrare in contatto con il mondo; un estraneo, per l’appunto, che è prima di tutto uno spettatore: della sua città che osserva dall’alto e da lontano; dell’edificio in cui abita solo e dal quale nella prima scena è costretto a uscire; della sua stessa vita, e in particolare del suo passato, che vive e al tempo stesso osserva in sequenze dal contenuto onirico dolcemente realistico».
Lorenzo Ciofani, su La Rivista del Cinematografo, colloca il film all’interno della filmografia del regista, scrivendo che «Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi: Andrew Haigh lo sa bene e Weekend (un breve incontro destinato a incastonarsi nella memoria) e 45 anni (una lunga storia denudata di fronte alla verità nascosta) stanno lì a dimostrare quanto sia profondo e struggente lo sguardo di un regista sempre disperatamente bisognoso di credere nell’amore come salvezza. Sulle onde del protagonista di Estranei, uno sceneggiatore intrappolato in un trauma mai elaborato, Haigh deve “ricordarsi che quando ci si bacia si deve prendere fiato” e perciò si sintonizza sull’affanno di Adam (più vicino ai cinquant’anni che ai quaranta eppure senza età, con gli occhi di un bambino ferito, il corpo di un adolescente inesperto, l’intimità di uno che ha rinunciato a vivere: Andrew Scott da brividi), si immerge nelle sue paure, fa detonare nel dolore il riverbero del ricordo».
Anche Donato D’Elia, sulle pagine di Quinlan, è per la quale, denotando soprattutto il grande lavoro di adattamento del regista per rendere nelle sue corde un romanzo che già aveva goduto di una trasposizione sul grande schermo. Scrive così il critico: «Subito trasposto al cinema già l’anno successivo alla sua uscita editoriale dal cineasta nipponico Nobuhiko Obayashi, il romanzo Estranei di Taichi Yamada narrava, nel 1987, lo spaesamento al sopraggiungere della mezza età di un borghese trovatosi improvvisamente solo, con il rifugio della nostalgia e del rimpianto come unico approdo rimastogli. Trentasei anni dopo, tocca ad Andrew Haigh aggiornare e adattare la storia (All of Us Strangers il titolo originale della versione del cineasta inglese) alla sua sensibilità e alle problematiche contemporanee».
Infine, anche Maurizio Porro, su Il Corriere della Sera, insiste nel riflettere sulla libertà creativa che Haigh si è preso nei confronti del testo di partenza, notando come «il senso del rimpianto, delle parole non dette, le carezze non avute, gli sguardi non corrisposti, il tradimento del Tempo sono i temi di Estranei di Andrew Haigh ( Weekend , 45 giorni ) tratto liberamente dal libro di Taichi Yamada (ed. Nord). Non siamo a Tokyo, ma in un palazzone di Londra, regno d’estraneità, dove in una sera di tangibile malinconia, bussa alla porta di Adam, scrittore 40enne, il giovane Harry che disinvolto gli chiede di passare con lui la serata».
di Paola Dei e Gaia Serena Simionati