Emily
La recensione di Emily, di Frances O’ Connor, a cura di Martina Marino.
Disponibile in tutte le sale cinematografiche dal 15 giugno, Emily è l’opera prima dietro la macchina da presa di Frances O’ Connor: un racconto in gran parte romanzato di quella breve parentesi vitale – durata poco più di un trentennio – irrequieta e sediziosa della scrittrice inglese Emily Brontë.
“Vivere ed essere sciocchi”, risponde Emily in fin di vita quando la sorella Charlotte, in preda ad un agglomerato emotivo di rabbia, disperazione ed invidia, le chiede come abbia fatto a scrivere Cime Tempestose. Sembra dunque che lo slancio artistico di quell’opera, così brutale e torbida da un punto di vista sentimentale, vada cercato in una filosofia di vita che forse davvero poco aveva a che fare con la vita fragile e sofferente toccata in sorte alla figlia di mezzo del reverendo Brontë. Nata donna in un’epoca in cui il gentil sesso era destinato alla cura del focolare domestico – o, laddove l’intelletto lo consentisse, tutt’al più all’insegnamento – Emily vive una giovinezza assai turbolenta e segnata dalla prematura scomparsa della madre, durante la quale soffre parecchio nel tentativo di trovare il proprio posto nel mondo senza che la società bigotta e patriarcale dell’epoca riesca ad addomesticare la sua autenticità sfrontata.
La regista prova, così, ad immaginare quali siano potuti essere i retroscena relazionali che hanno fatto da propulsore per la scrittura del grande capolavoro di Brontë: la racconta in perenne competizione con Charlotte – alla quale si paragonava costantemente, senza sentirsi mai all’altezza – alla ricerca spasmodica dell’approvazione di un padre severo e scostante, sempre complice dello spirito libertino e talvolta sconsiderato del fratello maggiore Branwell e innamorata perdutamente di William Weightman, il curato di Haworth.
Non si può sapere con esattezza quanto di realmente accaduto ci sia nella trasposizione della regista australiana, ma il messaggio veicolato dal film è, al contrario, assai chiaro: l’amore è capace di unire mondi – spesso molto divergenti tra di loro – o di costruirne di nuovi, ma al contempo anche il dolore è una forza motrice che disinibisce, motiva, incoraggia al meglio, al nuovo. Non è poi così difficile unire i puntini e rivedere, nella turbolenta storia tra Emily e William – impossibilitati a stare insieme per il ruolo svolto da quest’ultimo ad Haworth – un po’ dell’irrequietezza amorosa travolgente e indomabile di Heathcliff e Catherine, destinati a perdersi e ritrovarsi senza soluzione di continuità.
La tecnica filmica è completamente in linea con l’oggetto del racconto: frequenti primi piani, ralenti e giochi ritmati di un sonoro che alterna rumori assordanti a lunghi fotogrammi silenti sottolineano la complessa psicologia della protagonista, magistralmente interpretata da Emma Mackey al suo primo film in costume.
Emily è un biopic sfrontato ma al contempo indulgente, con il quale O’ Connor omaggia teneramente una delle figure della letteratura femminile dell’Ottocento più iconiche ed imperiture.
di Martina Marino