Elle

L’eros e la violenza sono due macrotemi la cui congiuntura – ambigua, conturbante, pericolosa – è stata da sempre, in ogni campo, fonte d’ispirazione e input all’indagine sugli aspetti più profondi e inaccessibili della psiche umana. Paul Verhoeven, nel suo ultimo film – pluripremiato e ben accolto dalla critica – parte esattamente da queste coordinate, bilanciandone però la gravità con reiterate incursioni nel grottesco e nello humour nero. Ma al nocciolo del discorso di Elle sta soprattutto una disamina senza sconti di quella buona società sempre pronta ad autocelebrarsi negando sistematicamente imperfezioni e debolezze e censurando e rimuovendo i propri vizi segreti.

Più ancora dei solidi punti di partenza e della sceneggiatura sicuramente ben costruita (tratta dal racconto Oh… di Philippe Djian) è però l’eccellente interpretazione di Isabelle Huppert, nel ruolo della protagonista Michèle, l’elemento determinante del film. Algida e insieme passionale, apparentemente imperturbabile, la Huppert dà corpo e sostanza a un personaggio dal fascino impenetrabile (come la Isabelle Reed di Segreti di famiglia) e dalla sessualità complessa, irrequieta, irrisolta (come la Erika Kohut de La pianista).

Autoritaria e sicura di sè, Michèle dirige un’azienda che sviluppa giochi di ruolo digitali. Con i suoi dipendenti, che non le risparmiano scherzi sessisti e volgari, mantiene lo stesso distacco che riserva ai suoi familiari. Figlia di un assassino seriale – in carcere da anni e in fin di vita – ha imparato presto a gestire ogni possibile deriva emotiva, e vive una rigida routine fatta di estremo autocontrollo e (voluta) solitudine. Quando però uno sconosciuto con il volto coperto da un passamontagna entra in casa sua, la aggredisce e la violenta, Michèle non prende neppure in considerazione l’ipotesi di denunciare il fatto alla polizia. Sarà lei stessa a scoprire, passo dopo passo, l’identità dell’aggressore, a proprio rischio e pericolo.

Asciutto e conciso ma densamente stratificato, Elle è in un certo senso la storia di un’attrazione irriducibile per la vertigine, per l’abisso. Tuttavia, quella che inizialmente appare una scelta inutilmente imprudente, un cedimento a una pulsione assolutamente irrazionale e tutt’altro che innocua, va letta all’interno di un contesto – la famiglia della protagonista e, in generale, il suo universo affettivo –  di cui sarà la stessa Michèle, con il suo atteggiamento sprezzante e indisponente ma sincero, a svelare una volta per tutte le ipocrisie e le profonde disfunzionalità. Perché tra tutti, la fredda e riservata Michèle, segretamente capace di confrontarsi con la parte più recondita e scabrosa della propria mente, è in fondo la più onesta e la più audace, l’unica a puntare il dito sulle debolezze del figlio – un ragazzo senza ambizioni che si lascia assurdamente manipolare da una compagna tirannica – o della madre anziana, che ostenta con disinvoltura un giovanissimo fidanzato. E sarà l’unica, soprattutto, a intuire che dietro l’apparenza di giovane coppia perfetta, i suoi vicini di casa sempre solerti e gentili hanno in realtà molto da nascondere.

Gli schemi del thriller insomma, e in una certa misura anche l’insidioso gioco erotico tra la protagonista e il suo aggressore, sono funzionali ad allargare la riflessione su un piano ben più ampio: l’ambivalenza, troppo spesso rimossa o negata, delle nostre più inconfessate pulsioni e l’inautenticità di fondo del nostro relazionarci all’altro, sempre dissimulata in nome delle convenzioni e del conformismo.

Trama

Michèle dirige un’azienda che sviluppa giochi di ruolo digitali. Sicura di sé, algida e compunta, ha in realtà alle spalle un passato terribile. Quando viene aggredita da uno sconosciuto, decide di non denunciare il fatto alla polizia ma di iniziare con il suo stupratore un gioco quanto mai ambiguo e pericoloso.


di Arianna Pagliara
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