El conde

La recensione di El conde, di Pablo Larrain, a cura di Marco Catenacci.

Augusto Pinochet, post mortem. Il dittatore è ancora tra noi, nella forma di un vampiro che sopravvive da 250 anni e che ora è tornato per succhiare il sangue alla popolazione cilena. Dopo aver corteggiato l’horror con grande intelligenza attraverso gli spazi e la quotidianità terrificante di Spencer, Pablo Larraín ritorna sul genere in modo più esplicito per affrontare nuovamente il fantasma che pervade, in assenza, gran parte della sua filmografia.

Il discorso questa volta è frontale, ma lo sguardo, rispetto ad altri film del regista, è ribaltato: non più il regime fascista generatore di mostri (Tony Manero, Post Mortem), bensì il potere stesso come mostro eterno e inestinguibile. Horror, commedia nera, satira politica: ma per Larraín – purtroppo – il genere è mero orpello, castrato da un discorso che è solo e unicamente autoriale, in cui l’evocazione di immagini del cinema delle origini (Nosferatu, Vampyr, La passione di Giovanna d’Arco) non è mai in grado di innescare una riflessione capace di andare più a fondo della scontata citazione.

Naturalmente non può bastare la curatissima confezione (fotografia di Ed Lachman) a nascondere un’operazione piuttosto fragile e l’utilizzo della figura del vampiro in chiave così evidentemente e superficialmente allegorica finisce per essere più ingombrante che feroce. Insomma, nel guardare finalmente dritto negli occhi il male di Pinochet, Larraín firma quello che è sicuramente il suo film meno convincente, un mezzo passo falso in una filmografia fin qui capace di indagare la Storia e di piegare il biopic con una coerenza e una potenza senza eguali nel cinema contemporaneo.


di Marco Catenacci
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