Eisenstein in Messico

Nel 1930 Sergey Ejzenštejn era al culmine della fama: idolatrato in patria come uno degli astri nascenti della nuova arte sovietica dopo la possente trilogia (Sciopero, La corazzata Potiömkin e Ottobre) con la quale aveva celebrato la fine della secolare notte zarista e l’avvento del radioso presente regalato alla grande Madre Russia dalla Rivoluzione d’Ottobre, decise di partire per un lungo viaggio che lo avrebbe portato a confrontarsi con mondi diversi ai cui patrimoni culturali avrebbe voluto attingere per dare nuova linfa alle sue già più che innovative idee in materia di cinematografia applicata.

Dopo essere stato in giro per le principali capitali europee e aver vissuto una movimentata esperienza hollywoodiana (a chiamarlo nella Mecca del cinema capitalista erano stati i vertici della Paramount che lo attirarono in California per affidargli una versione cinematografica di Una tragedia americana di Theodore Dreiser), verso la fine del 1931 approdò in Messico. Il vero scopo di quella tappa era un progetto di grandi ambizioni e dimensioni in celluloide: e cioè realizzare un maestoso documentario sulla rivoluzione zapatista del 1911 per paragonarne il devastante impatto sociale all’azione esercitata dalla sollevazione bolscevica in Russia nel 1917 (evento al quale aveva partecipato pur essendo un giovanotto imberbe, visto che era nato nel 1989 in Lettonia da madre russa e da un discendente di facoltosi ebrei tedeschi).

Com’è noto, quel progetto faraonico (il cui titolo avrebbe dovuto essere un quanto mai scontato Que viva Mexico!) rimase poco più che un magnifico aborto destinato ad alimentare miti e leggende metropolitane per molti anni a venire: dell’immane mole di girato, Ejzenštejn in persona non arrivò mai né a montare alcunché né tanto meno a licenziare una delle molte versioni apocrife che iniziarono ben presto a circolare. Non ebbe tempo di farlo perché Stalin in persona – insospettito dalla prolungata permanenza all’estero di un intellettuale già non visto troppo bene dal regime – lo richiamò all’ovile costringendolo a rientrare alla base, senza però che il grande maestro potesse immaginare quanto il tiranno gli avrebbe resa amara la breve vita che gli restava ancora da vivere.

Prima di lasciare (a malincuore) il Messico, Ejzenštejn affidò i chilometri di pellicola impressa e non ancora montata al romanziere Upton Sinclair (che era anche uno dei maggiori finanziatori dell’impresa), incaricandolo di inviare il tutto in Unione Sovietica non appena gli fosse stato possibile. L’idea era quella di montare il documentario a Mosca. Cosa che invece non si verificò mai perché di lì a due anni il produttore Sol Lesser ne fece assemblare alcuni dei molti segmenti dando vita a quell’apocrifo che è comunemente noto come Lampi sul Messico senza che Ejzenštejn venisse interpellato in proposito o che gli venisse chiesto il consenso per mettere a punto la scellerata operazione.

Questa bizzarra coproduzione europea diretta dal non meno bizzarro ed estroso regista e scrittore gallese Peter Greenaway va a pescare nel torbido negli ultimi dieci giorni che Ejzenstejn trascorse in Messico. Per la precisione il periodo compreso tra il 21 e il 31 ottobre di quel fatidico 1931. Dieci giorni cruciali che, per dirla parafrasando bonariamente il titolo del celeberrimo reportage che il giornalista d’assalto americano John Reed dedicò alla fase più critica della Rivoluzione d’Ottobre, sconvolsero il regista sovietico nel profondo. Al punto da rimanere una specie di buco nero nel quale la fantasia ri-creatrice di un cineasta dei giorni nostri può sbizzarrirsi a piacimento per riempirne i molti vuoti con spericolate intuizioni e cerebrali ricami narrativi volti a cucire addosso a un personaggio reale un vestito forse mai davvero indossato.

Peter Greenaway, che nella sua controversa filmografia può vantare una serie di notevoli esemplari di queste vite fasulle attribuite a personaggi reali, è partito dalla biografia che l’americana Marie Seton ha dedicato nel 1952 al grande maestro sovietico, preoccupandosi anche di andare a scomodare il carteggio con la fidatissima assistente Pera Atasheva (poi divenuta sua moglie) per indagare sui possibili accadimenti di quei dieci e tenebrosi giorni messicani di black-out documentario.

Ma qui finisce la componente del rispetto filologico con cui Greenaway ha affrontato il personaggio che aveva in testa di mettere al centro di un film nato come un documentario sul documentario mai realizzato da Ejzenštejn, ma divenuto col tempo un prodotto di finzione con protagonista preso di peso dalla storia del cinema e dalla vita reale. Tutto il resto è infatti pura invenzione, farcitura corposa e non sempre digeribile di un piatto che sarebbe stato insipido se il visionario gallese non lo avesse speziato con gli artifici abituali della lente genialmente deformante con cui guarda il mondo e ne stravolge i contorni a sua immagine e somiglianza.

Che Greenaway ed Ejzenštejn – irregolari talentuosi di diversa statura e peso – dovessero prima o poi incontrarsi era scritto nel destino. Non è un segreto che l’autore de I misteri del giardino di Compton House abbia più volte ribadito come proprio la visione della trilogia sulla Rivoluzione d’Ottobre del maestro sovietico nel lontano 1959 sia stata la folgorazione che lo ha portato a tradire i sogni di gloria in campo architettonico per trasferire su pellicola le sue ardite visioni di eclettico sempre portato a coniugare il cinema con arti visive «altre».

Fedele a questa sua idea di cinema che deve tradire e ingannare la visione per essere un quadro fedele dell’instabilità del vivere, Greenaway ha scippato a Ejzenštejn gli ultimi dieci giorni trascorsi in Messico (nella piccola località di Guanajuato, per la precisione) riempiendoli di una serie di ispiratissime zeppe biografiche che non hanno alcun fondamento documentario ma che gli permettono di reinventare un personaggio ingessato nella Storia tribolata di quei primi anni ’30 convertendolo in una persona capace di scoprire il vero se stesso a contatto con l’otium messicano e con gli stimoli (intellettuali e non) di una cultura agli antipodi da quella di provenienza.

Ed ecco quindi il suo Ejzenštejn (che qui ha le fattezze stralunate e corpulente dell’attore finlandese Mark Bäck) dimenticarsi del vero scopo del proprio viaggio in Messico, travolto com’è dal viaggio al termine della notte interiore che l’assistente Palomino Cañedo lo aiuta a intraprendere, guidandolo nel caos della propria natura fino a un inatteso approdo verso le gioie dell’altra sponda mostrandone le fasi con scenografica potenza in quella che è forse la più memorabile delle scene là dove il protagonista paragona l’iniziazione alle gioie omosessuali addirittura alla presa del palazzo d’inverno.

Ritratto amabilmente irriverente e al tempo stesso devoto che un discepolo un po’ mariuolo dedica al proprio nume tutelare senza timore di sporcarne la memoria museale con l’impertinenza dell’immaginazione, questo collage di deliri visuali sempre tenuti sotto vigile controllo dall’occhio dell’architetto è un Greenaway doc che non scontenterà i suoi molti fan, pur confermando come il regista gallese sia un autore per pochi intimi e come la rarefazione del suo cinema non possa essere la ricetta ottimale per trascinare le masse in sala.

Trama

Nel 1931 il grande regista sovietico Sergey Ejzenštejn arriva in Messico per girare un film documentario sulla rivoluzione zapatista. Non ostante un’immensa mole di materiale girato, il film non viene mai realizzato. Ma attraverso il viaggio nella cultura e nell’anima del Messico, Eisenstein scopre una parte di se stesso fino ad allora rimasta inesplorata.


di Redazione
Condividi