Eileen

La recensione di Eileen, di William Oldroyd, a cura di Valeria Gennaro.

Una performance controllata di Anne Hathaway nel thriller dalle atmosfere hitchcockiane Eileen: trasposizione dell’omonimo romanzo di Ottessa Moshfegh. Il film, presentato in anteprima mondiale al Sundance Film Festival e alla Festa del Cinema di Roma, vede nel ruolo di protagonista – accanto al Premio Oscar Anne Hathaway – la nuova star di Hollywood, Thomasin McKenzie (Ultima notte a Soho): la prima spietatamente seducente e McKenzie con un po’ meno di consapevolezza del ruolo e un accento che vacilla.

Nella Boston degli anni ‘60 la giovane Eileen (Thomasin McKenzie) conduce una vita monotona lavorando come segretaria in un riformatorio minorile e prendendosi cura del padre alcolista. La ragazza sembra essere condannata alla solitudine. Le cose cambiano con l’arrivo di Rebecca (Anne Hathaway), la  psicologa del carcere che esercita un fascino magnetico su Eileen.

Un film che ci ricorda il melodramma intimo di Carol, ma è meno aperto alle eccentricità. L’attrazione magnetica per Rebecca è difficile da definire. Vuole fare amicizia con lei? Vuole stare con questa persona? O essere questa persona? Oldroyd, che si è fatto conoscere con Lady Macbeth del 2016, ci affascina di nuovo con la storia di donne curiose in luoghi desolati, con un plot di complessità psicologica iniziale che si trasforma in qualcosa di meno sostanzioso. 

Il regista sembra incapace di decidere fino a che punto spingersi anche nel finale quando l’impianto stilistica e l’esplosione musicale non si addicono al film che fino a quel momento resta quieto.  L’effetto è che non riusciamo a capire bene cosa stiamo guardando. Perché Eileen è un lavoro strano, anzi stranissimo, che riesce anche a regalarci un’interessante scena con Marin Ireland: un monologo sconvolgente, primo e ultimo momento di un lungometraggio che poi svapora nel nulla.


di Valeria Gennaro
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