E la festa continua!
La recensione di E la festa continua!, di Robert Guédiguian, a cura di Emanuele Di Nicola.
Una madre guarda il figlio negli occhi e confessa candidamente: “Stanotte ho fatto l’amore”. In tale sequenza si può racchiudere idealmente tutto il cinema di Robert Guédiguian, perfino la sua idea delle immagini e della vita. Nell’ultimo film E la festa continua!, dall’11 aprile nelle sale italiane, si trova infatti un distillato dell’arte del regista marsigliese, qui al suo meglio: e c’è – ovviamente – la crasi inscindibile tra privato e pubblico, che per lui sono la stessa cosa, nel senso che l’uno non può essere separato dall’altro. La mamma è Rosa (Ariane Ascaride), che si chiama come Rosa Luxemburg, il figlio è Sarkis (Robinson Stévenin), e la donna sta valutando se candidarsi come capolista nella lista di sinistra alle elezioni locali, tentando di ricomporre lo schieramento frammentato tra verdi, socialisti, liste civiche; all’improvviso però si innamora e alla sua età, quasi settanta anni, intrattiene un intenso rapporto sessuale. “Non vedo l’ora di rifarlo”, dice alla prole. Eccolo qui, tutto Guédiguian, nella capacità ammirevole di unire gli opposti e portarli a sintesi nell’unico luogo possibile, il cuore umano.
E la festa continua!, prima di tutto, è il film del ritorno a Marsiglia. La città natale, la sorgente, il punto di inizio e l’eterno approdo. Stavolta l’origine è una tragedia: il crollo dei due palazzi in rue D’Aubagne, il 5 novembre 2018, che portarono alla morte di otto persone. Un orrore di periferia, che travolge fasce deboli, poveri, migranti ed è dovuto all’incuria e alla speculazione edilizia, alle gravi mancanze in sede di costruzione. I video di repertorio sono quelli veri coi vigili del fuoco che si muovono tra le macerie, calpestando scarafaggi. Dopo di questo però parte una mobilitazione: la cittadinanza indignata decide di muoversi e provare a cambiare.
A questo punto la lente del regista si sofferma su una famiglia allargata di origine armena, composta dalla mamma e figlio di cui sopra, ma anche da altri. C’è il fratello di Rosa che si chiama Tonio (Gérard Meylan), come Antonio Gramsci, convive con una giovane infermiera nera (Alice Da Luz), è un viveur che non rinuncia all’amore e afferma: “A Marsiglia sono tutti di sinistra, non ci sono borghesi, fascisti o razzisti, solo gente perbene”. C’è Sarkis che ha una relazione con Alice (Lola Naymark), dalla quale vuole un figlio, ma lei non può averne; c’è il padre di Alice, Henri (Jean-Pierre Daroussin), che è proprio l’amante di Rosa, ossia i genitori dei giovani fidanzati si uniscono ipotizzando un nuovo allargamento del nucleo. Sono gli attori-amici di Guédiguian.
Tutti questi personaggi, e altri ancora, si ritrovano in un racconto corale che dispiega le loro relazioni, complesse ma sempre all’insegna della vicinanza solidale, e con un obiettivo: cambiare rotta e non permettere un’altra rue D’Aubagne, che per stabilire una memoria duratura si chiamerà Place du 5 Novembre. Se il film registra le relazioni umane, nel finale disegna una chiusura apertamente politica: dopo i dubbi e i ripensamenti, le incertezze dell’età e delle tante rivoluzioni fallite, ecco improvvisamente affiorare una strada possibile che del resto era già indicata nel titolo.
A margine, va detto ci sono tanti modi per guardare i film di Guédiguian: uno dei principali è sempre scrutare Marsiglia, la città-mondo, unione di culture e dichiarazione di essenza, in cui tutto si mescola per creare un mélange inedito e struggente (“Quando Flaubert arrivò al Porto Vecchio disse: ‘Questa è l’Africa!’”). Come veniva dipinta nell’Ottocento da Paul Cézanne, che restava ore ad osservare il golfo e il piccolo porto dell’Estaque, come veniva descritta nei romanzi di Jean-Claude Izzo, col protagonista Fabio Montale che si arrampicava nei vicoli chiamandoli per nome, oggi Marsiglia viene inscenata da Robert Guédiguian: e basta una panoramica dai tetti per trattenere quello splendore estetico che ispirava i post-impressionisti. Ma sono anche altri i riferimenti del regista, c’è la poesia di Jacques Prévert e il genocidio del popolo armeno da cui discende, che si può rimborsare solo facendo nuovi figli. Sbagliato sarebbe infine contestare al film un approccio anti-realistico. Va preso come una favola, un racconto etico, una provocazione positiva: “La mia è una proposta di utopia”, ha detto il regista. Una proposta – dunque – simile a quella di The Old Oak di Ken Loach, il grande sodale, soprattutto nel finale quando gli inglesi autoctoni e i rifugiati siriani imparano a camminare insieme. Dopo la sconfitta storica della sinistra, è allora il tempo dell’utopia. Qui la matura militante Rosa rivede il fantasma del padre, uno spettro di carne che lascia un messaggio: “Quando incontrate qualcuno che chiede la carità, fermatevi e dategli quello che avete in tasca. Molti saranno ladri e impostori, ma basta uno che ha davvero bisogno per annullare le bugie degli altri”. La festa continua. Punto esclamativo. Marsiglia resiste.
di Emanuele Di Nicola