E la chiamano estate
“Impotenza secondaria situazionale, risolvibile con una semplice terapia”: così, in conferenza stampa, una giornalista e sessuologa ha riassunto la situazione esistenziale di Dino (Jean-Marc Barr), protagonista del film di Paolo Franchi, E la chiamano estate, presentato in concorso alla settima edizione del Festival di Roma. La giornalista in questione avrà certamente ragione dal punto di vista clinico ma il cinema di Franchi poggia e ruota, sin dai tempi di La spettatrice (2004), su e intorno al tema dell’impossibilità di cambiamento, di evoluzione, di trasformazione. I suoi personaggi sono sempre di fronte ad un impedimento, ad un blocco che non contempla superamento ma solo reiterazione (vd. la ripetizione della lettera di Dino ad Anna) o regressione.
Nel film del 2004, la protagonista (Barbara Bobulova) è capace di un amore assoluto, smisurato, totale, solo nei confronti di un’immagine ideale e non di un essere umano in carne ed ossa. In Nessuna qualità agli eroi, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 2007, l’impossibilità psicologica di creare qualcosa, di dare vita ad un progetto insieme all’altro da sè diventa fisica, concreta, tangibile quando il personaggio centrale del film (Bruno Todeschini) apprende di non poter avere figli. L’uomo e la donna (Isabella Ferrari) di E la chiamano estate che non riescono a fare l’amore ripropongono, dunque, l’ossessione centrale della filmografia di Franchi: l’amore come possibilità impossibile, pura astrazione che allontana dalla realtà e trascina sempre più giù, nel fondo di un abisso.
Se in La spettatrice la riflessione sulla paura di amare, di essere coinvolti, di rischiare delusioni ed abbandoni, è portata avanti con profonda sensibilità e misura, in Nessuna qualità agli eroi il gioco si fa più duro, con la telecamera che invade i corpi e provoca in chi guarda una estenuante tensione nervosa. E la chiamano estate, ancor più del film precedente, si allontana da un impianto classico, tradizionale e privilegia un andamento frammentato: brevi monologhi, vecchie foto, immagini di sogni, scene stancamente reiterate raccontano l’inquietudine, la drammaticità, il vuoto di un amore inappagato, incompleto, infelice.
Franchi, come i suoi personaggi, qui rischia di esagerare mortificando, talora, il suo talento, provocando lo spettatore e obbligandolo ad accettare situazioni sgradevoli ed eccessive. Viene da pensare che, più o meno consciamente, abbia fatto sua una famosa affermazione di Fassbinder: “Se il pubblico non gradisce, pensavo, allora gli mostro di amarlo dieci volte meno. Solo così era plausibile il fatto di non essere amato, perché ero io a provocarlo. In realtà volevo evitare di essere ferito!”.
TRAMA
Un anestesista è sposato una una donna affascinante molto innamorata di lui. Tra i due, però, non si sono contatti fisici, poiché lui ha un blocco psicologico che lo spinge a trovare soddisfazione sessuale attraverso incontri con scambisti e con prostitute.
Quando questo suo segreto verrà a galla, tra i due “amanti bianchi” nascerà una crisi che terminerà in maniera tragica.
di Mariella Cruciani