È arrivata mia figlia

È ancora possibile parlare di lotta di classe al cinema senza cadere nella retorica o fare del facile moralismo mascherato da impegno sociale? A giudicare da questa super premiata commedia drammatica battente bandiera carioca sembrerebbe che lo sia ancora. E che si riesca anche a farlo evitando il cattivo gusto, il patetismo di maniera e le tirate da cinema engagé che sono sempre state l’inevitabile corollario di tutte quelle pellicole che nel passato remoto come in quello più prossimo hanno messo al centro delle proprie storie lo scontro tra classi sociali in eterno conflitto su diversi palcoscenici antropologici del pianeta.

Per quanto la cosa possa sembrare fuori moda o per lo meno poco in linea con quanto il cinema d’autore sembra aver prediletto negli ultimi anni a livello di tematiche da usare per prendere di mira le storture del mondo denunciandone la persistenza invasiva, È arrivata mia figlia ruota integralmente intorno a quello che una volta sarebbe stato descritto come un conflitto di classe per antonomasia. Ovvero tra gli eletti che gestiscono la ricchezza avendola ereditata e senza far nulla per meritarla e gli umiliati e offesi condannati a subire proprio perché esclusi a divinis dall’accesso a quall’antico strumento di potere.

Nella parte più ricca della megalopoli che è San Paolo la famiglia del Dottor Carlos (pittore fallito che vive di rendita grazie ai soldi lasciatigli dal padre), di sua moglie Barbara (indaffaratissima business woman impegnata nel campo della moda) e del figlio diciassettenne Fabinho (viziato e abulico come tanti suoi coetanei in giro per il globo), il vero perno intorno al quale ruota la gestione dell’intera casa è la cinquantenne Val: arrivata tredici anni prima dal povero Nordeste dove ha lasciato la figlia Jéssica che non vede da dieci, oltre a cucinare, lavare, pulire e servire a tavola, ha fatto da madre surrogata di Fabinho che ha con lei un rapporto speciale invidiato dalla distratta madre troppo presa dal vortice della sua vita fasulla per aver tempo da dedicargli.

Un giorno Jéssica si rifà però viva per comunicare alla madre il proprio arrivo a San Paolo per sostenere l’esame di ammissione alla facoltà di architettura della più prestigiosa università del paese. Val non sta nella pelle dall’emozione, non potendo però prevedere che la presenza della figlia (emancipata e per nulla in linea con i rigorosi principi di separazione tra le classi su cui lei ha impostato la propria visione del mondo) creerà una specie di terremoto sociale all’interno della lussuosa dimora dove è a servizio da anni e dove non avrebbe nemmeno mai potuto immaginare che certi sovvertimenti di antichi equilibri sociali potessero fare da detonatore alla sua tardiva presa di coscienza.

Come accadeva nel Teorema pasoliniano, anche qui l’arrivo di un personaggio esterno alle dinamiche che regolano una certa parte di mondo dà il via a uno scombussolamento progressivo nell’intimo di chi ha da sempre goduto dei privilegi legati ad antichi rapporti verticali di sudditanza tra «servi» e «padroni». Ivi compresa (o forse soprattutto) la madre Val che all’inizio cerca di arginare le tendenze della figlia impedendole di abusare della cortesia dei suoi datori di lavoro e che alla fine dovrà invece non solo accettare in Jéssica l’inarrestabile avanzata del nuovo, ma si lascerà anche infettare dal contagio arrivando al gesto estremo del licenziamento in previsione di una rinascita sociale che è anche sofferta riappropriazione della dignità perduta.

Premiato al Sundance Film Festival con un riconoscimento speciale della giuria per il cinema straniero e poi insignito alla Berlinale del premio del pubblico nella sezione «Panorama», È arrivata mia figlia è il quarto film della cinquantunenne paulista Anna Muylaert. Approdata alla ribalta internazionale dopo una lunga gavetta nel campo televisivo (con molte serie TV da lei scritte e dirette) e in quello della sceneggiatura (con collaborazioni importanti quale quella per L’anno in cui i miei genitori andarono in vacanza di Cao Hamburger), ha esordito nel 2002 con Durval Discos, lungometraggio col quale aveva dimostrato sin da subito di essere un tipico animale da festival aggiungendo poi molti altri premi in Brasile e non col successivo Proibido fumar del 2009.

Contrariamente a quanto il trailer in circolazione in Italia vuole far credere, il suo non è affatto un film leggero all’insegna del divertimento spigliato né tantomeno una storia di formazione o di riconciliazione tra genitori e figli. E in questo non aiuta di certo la scelta che la distribuzione di casa nostra ha voluto fare nel tradire il senso del titolo originale che nella domanda «A che ora arriva?» voleva sinteticamente riassumere lo stato d’animo da prima della rivoluzione che precede l’arrivo di Jéssica a casa ma che allude anche al clima di costante attesa da parte di Fabinho di una madre assente che gli ha sempre preferito negli affetti la tata tuttofare con cui è cresciuto.

È arrivata mia figlia nutre ambizioni molto più grandi. Mettendo infatti in scena questa piccola rivolta di classe da kammerspiel in salsa carioca, Anna Mulyaert sfrutta l’apologo della colf devota che assiste impotente allo smantellamento delle regole secolari che da sempre governano le dinamiche sociali nel suo mondo per raccontare cosa sia il Brasile dei giorni nostri. E cioè un paese arrivato al bivio amletico del futuro portandosi dietro decenni di arretratezza imposta dalle minoranze bianche che per secoli hanno imposto modelli di separazione tra classi fondate solo sul censo e impermeabili a ogni forma di innovazione possibile.

Un paese nel quale Val rappresenta quel passato inossidabile fatto di quiescenza passiva e fatalistica ad antichi retaggi rimasti intatti per secoli, mentre la figlia Jéssica è la portabandiera del presente che sgomita e che non ha vergogna di urlare al mondo che la società del domani la si può costruire soltanto sul merito e sui valori autentici dei singoli senza alcuna distinzione né di classe né di censo. Ovvero una rivoluzione incruenta dal basso capace di infrangere quelle regole inique che per troppo tempo hanno spaccato a metà l’immenso Brasile, facendo sì che potere e ricchezza si concentrassero nelle mani di pochissimi e lasciando ai margini della Storia il resto chiassoso di un intero popolo costretto da sempre soltanto a subire.

Ma non ci si limita a questo (che come menù sarebbe già di per sé piuttosto ricco). Animata com’è dalla voglia di scardinare antichi tabù raccontando senza essere faziosa il nuovo Brasile che si affaccia da protagonista sugli scenari del mondo, Anna Mulyaert affronta anche un altro tema scottante che coinvolge milioni di donne brasiliane delle classi meno abbienti: costrette come Val ad andare a servizio a migliaia di chilometri di distanza per mantenere la famiglia stritolata nel sottosviluppo del paesello d’origine, moltissime madri allevano i figli di ricche signore finendo però col dover affidare ad altre donne i propri.

Il tutto in un mastodontico circolo vizioso cui sembra che le nuove generazioni (pur con tutto lo slancio rivoluzionario di cui sono portatrici) non riescano a sottrarsi. Prova ne sia che la stessa Jessica, con un colpo di scena che non è bene rivelare perché è lo snodo narrativo che permette alla sceneggiatura di uscire dalle secche del ritratto di borghesia con sfondo da lotta di classe per diventare inno al risveglio sociale e alla presa di coscienza di un singolo che però rappresenta masse intere, non ne è esente. Al punto che il suo personaggio, proprio a seguito di quella rivelazione tardiva, si converte da detonatore della rivoluzione in assist al finale alla melassa che rischia però di rovinare un po’ tutto il buono costruito fino a quel punto.

Esempio di cinema per tutti che chiede di tenere il cervello sempre collegato perché sa parlare in maniera leggera di temi pesantissimi, questa commedia sociale striata a tratti dai toni cupi del dramma deve molto del suo successo internazionale alla presenza di Regina Casé, attrice celeberrima in Brasile e superba nel disegnare la fisonomia remissiva della sua Val simbolo e sintomo di secoli di ingiustizia. Peccato però che il pubblico italiano, penalizzato da un doppiaggio che rasenta il dopolavorismo amatoriale da tanto è stucchevole, rischierà di non apprezzare in pieno la finezza della sua interpretazione, finendo col confonderla con una qualunque star di telenovelas qui in libera uscita artistica.

Trama

Val è una cinquantenne del povero Nordeste brasiliano da 13 anni a servizio presso una ricca famiglia di San Paolo. Quando la figlia – che lei ha abbandonato al paese d’origine e che non vede da dieci anni – si presenta a casa per sostenere l’esame di ammissione a una celebre università della megalopoli, i padroni si mostrano sulle prime molto aperti e disponibili e le offrono di stare a casa. Ma ben presto la ragazza dimostrerà di essere un elemento di profonda rottura sociale capace di sovvertire con la sua grinta spigliata e la sua voglia di vivere regole classiste in piedi da secoli.


di Redazione
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