Domani
Domani di Francesca Archibugi non si limita a raccontare le manovre di sopravvivenza e le negoziazioni con se stessi e con gli altri che accompagnano un “dopo terremoto”, in questo caso quello che nel 1997 ha colpito l’Umbria raffinata e ricca delle basiliche e dei paesi costruiti sul tufo. No, in uno strano gioco di rispecchiamenti, il film attraversa le stesse fasi, subisce le stesse crisi, conosce gli stessi slanci della storia che racconta.
Proprio come un terremoto, Domani comincia all’improvviso, con una brusca accelerazione e un precipitare di sensazioni contrastanti – e se gli effetti speciali all’italiana non valgono quelli di Hollywood, certe emozioni si possono ottenere anche con due lire, ad esempio con tre giacche a vento fluorescenti degli uomini della protezione civile che emergono dal buio come una visione.
Subito dopo, comincia l’assestamento. E’ una fase lunga, contrastata, nella quale Archibugi presenta i suoi numerosi personaggi, passa velocemente dal primo piano di un volto a una casa crollata, da un silenzio adulto a un gioco di bambine, comincia a tessere i fili delle storie che poi dovranno incrociarsi, e qualche volta inciampa nella sua stessa sceneggiatura. In questo concitato prendere le misure dei propri personaggi e di uno stile registico nuovo, più secco e nervoso (molta macchina a mano, montaggio serrato, fotografia “sporca” da cinéma verité), sta forse la parte più coraggiosa ed anche la meno riuscita del film.
Che solo nella dirittura finale si distende e si precisa: ed ecco, finalmente, la leggerezza e la sensibilità dell’Archibugi affondare nei volti degli attori, cercarne il punto debole, il solo da cui può fuoriuscire un po’ di verità. Tutto il cinema della regista ruota intorno al corpo e all’anima degli attori, così come tutta la sua arte narrativa si raggruma intorno al cuore dei singoli individui.
In questo, Domani paga la sua ambizione di coralità lasciando in ombra qualche personaggio e sacrificando qualche storia al disegno d’insieme – Valerio Mastandrea, ad esempio, è dolorosamente fuori ruolo, e le due piccole amiche Vale e Tina inchiodate a dialoghi troppo letterari.
In compenso, Archibugi maneggia con grande perizia due registri difficili come la rabbia adolescente di Filippo Zerenghi (Niccolò Senni, già protagonista de L’albero delle pere) e la timidezza d’amore della maestra Betty (Patrizia Piccinini); ed offre a Ornella Muti, casalinga orgogliosa delle proprie scelte, non solo la responsabilità di una prova d’attrice, ma anche un’occasione di autenticità.
Beatrice Manetti
*L’umanità secondo Francesca Archibugi
Il meglio e il peggio dell’umanità. E’ quello che esprimono gli uomini e le donne, i bambini e i vecchi che, dopo aver subito un terremoto devastante, sono costretti ora a vivere in container che sembrano “gabbie per bestie da vivisezionare”, come dice un personaggio diDomani.
Ed è proprio una specie di amorosa instancabile vivisezione quella che compie la macchina da presa di Francesca Archibugi sui protagonisti del film, attaccata com’è ai volti, alle espressioni, ai gesti, alle rabbie e alle malinconie, alla cattiveria umanamente comprensibile e alla bontà sempre formale e inadeguata.
Il terremoto è una catastrofe naturale, ma è anche una specie di lente di ingrandimento, che fa vedere meglio di fuori e di dentro, è un evento che diffonde e ramifica malesseri e inquietudini negli individui, nelle famiglie, nella comunità, che scatena una serie di piccoli dissesti, crepe, frane; ma è vero anche il contrario, perché il terremoto è anche un giro di boa, un momento di confronto che dà nuovo coraggio, porta alla luce vecchie ferite, costringe a fare i conti rimandati da una vita.
Non a caso tutti i personaggi di Domani si trovano di fronte a una nuova occasione. Ricominciare daccapo (perché è crollata anche la casa), crescere e maturare (perché l’amore non è quasi mai quello che sembra): tutto questo fra demolizioni dolorose e scossoni salutari. Un film corale e unitario, ricco di personaggi che vivono una storia collettiva senza però dimenticare le proprie ragioni private.
Francesca Archibugi ha scelto per questo film doloroso e ottimista uno stile leggero, spesso contrassegnato dai toni della commedia, e un punto di vista affidato ai bambini, che come sempre sa dirigere con accortezza e sensibilità. Di qui una rappresentazione stringata ed efficace di situazioni, di colpi d’occhio, dove bastano poche parole e qualche sguardo muto per far capire ciò che sarebbe difficile (o inutile) spiegare.
Sullo sfondo della tendopoli e dei soccorsi, la macchina da presa, nervosa ma precisa, isola e unisce le storie dei vari protagonisti costruendo il filo di un discorso che va ben oltre la contingenza del terremoto. Il peggio e il meglio dell’umanità in uno tra i film più seri e coinvolgenti del recente cinema italiano.
Piero Spila
di Redazione