Dolor y Gloria
Dolor y Gloria, in concorso a Cannes e nelle sale italiane, è un documento generoso, sincero e impudico della carriera e della vita di Pedro Almodóvar.

Dolor y Gloria, in concorso a Cannes e nelle sale italiane, è un documento generoso, sincero e impudico della carriera e della vita di Pedro Almodóvar.
Autobiografico più che mai, ma senza narcisismo, Pedro Almodóvar racconta il faticoso ritorno alla vita di un regista in crisi d’ispirazione e di desiderio. Il presente, il passato prossimo, il passato remoto, autonomi o legati da un comune sentire: il regista si muove in questo labirinto da padrone assoluto. Madrid e l’assolata provincia di Valencia: Almodóvar è magnificamente ubiquo. Il cinema, il teatro e la scrittura: il regista è onnipresente. L’identità sessuale: tra etero (sempre meno, però), gay e transgender l’autore offre a tutti la sua complice simpatia. Niente è superfluo in questo Dolor y Gloria, e tutto funziona quasi alla perfezione. Opera di bottega? No, qui il regista sembra dire addio alla trasgressione di tutti i suoi film per consegnarci una pacata riflessione sulla splendida vitalità dell’uomo.
Pasolini diceva che un autore fa al massimo tre film, tutti gli altri sono variazioni sui temi. Per l’autore spagnolo questa griglia appare persino generosa. Almodóvar apre anche quest’ultima opera esibendo nei titoli di testa il perentorio marchio: “Un film di Almodóvar”, per poi ripetere, alla fine dei titoli e con falsa umiltà, “Sceneggiatura e regia Pedro Almodóvar”. Lo ha fatto con altrettanta determinazione solo Fellini mettendo il suo nome perfino nella composizione del titolo. Oltre al presente, al passato prossimo e a quello remoto, questa volta il regista punta lo sguardo anche sul futuro.
Almodóvar riversa come sempre la vita nei suoi film, rendendoci impossibile scoprire i confini tra la fiction e l’autobiografia. E qui più di altre volte, grazie a un Antonio Banderas coperto da una barba grigia simile a quella che oggi porta lo stesso sessantanovenne regista. Il film è intimo e sentito come mai prima ma contraddittoriamente meno personale e urgente di altre volte. È poco turgido e poco barocco, e come tale forse annuncia l’opera futura di Almodóvar. Emerge l’urgente necessità di chiudere i conti col passato quando nel presente tutto è desolazione e paura.
Il Pedro dello schermo qui si chiama Salvador, regista cinematografico con una trentennale carriera alle spalle e diventato ormai autore da cineteca. L’ispirazione lo ha abbandonato e gli acciacchi degli anni lo hanno colpito. Gli affetti sono rivolti al passato. Omosessuale appagato non ha una vita sessualmente attiva e congeda i vecchi amori sulla porta di casa. Cerca di riversare nella scrittura una volontà che stenta a farsi azione. Anzi la scrittura gli sembra l’unica terapia per dismettere il passato e continuare a vivere. Al suo fianco nel passato prossimo e nel passato remoto, l’ingombrante figura della madre (da giovane è Penelope Cruz, da anziana Julieta Serrano, entrambe luminose) e poi ancora altri personaggi come sempre pescati in una corte dei miracoli della marginalità, che però qui sono in misura ridotta rispetto a quella che caratterizzava la creatività bulimica del regista.
Dolor y Gloria è un’architettura di rimandi e un mix di ricordi. Il dolore è quello, fisico e spirituale, che lo tiene lontano dal cinema, che viene confermato dai segni di decadenza fisica, dal bisogno di buio e di silenzio, dall’eroina e dagli psicofarmaci. “Fare il regista è un lavoro fisico”, ammette ad un tratto il protagonista. La gloria è il passato quando il cinema era specchio della sua patologia ma anche, contemporaneamente, la sua cura. Banderas, qui all’ottavo film con Almodóvar, si cala nel personaggio fino a scomparire e rivela di Salvador aspetti intimi e profondi che in un viso coperto dalla barba possono essere comunicati quasi solo attraverso gli occhi.
Bottega, accademia o scuola, quest’ultimo film presenta, più concretamente dei precedenti, la riflessione del regista sulla maturità e l’attesa di una vecchiaia ormai alle porte. Conosciamo Salvador seminudo con una lunga cicatrice su torace, immerso in una vasca piena di un liquido, che fa pensare al liquido amniotico. Ma subito dopo eccolo bambino nell’assolato paesaggio della campagna valenciana, dalle parti dell’amata Paterna, mentre assiste al bucato nel fiume e alla stenditura dei panni sui cespugli. E lo rivediamo infine da adulto afflitto da molte malattie, e privo di quella vena fantastica che sembra averlo abbandonato. Come il Guido di 8 e ½, Salvador rivede i personaggi della sua vita e si congeda dalla vecchia madre che lo si rimprovera di non aver capito l’infelicità del figlio.
È un film crepuscolare, questo, e non solo per la pietas che circonda i risvolti drammatici del racconto, ma anche per la parsimonia delle immagini griffate Almodóvar. Una scena lo denuncia fin dall’inizio. E quella, pur bella, delle donne che lavano la biancheria al fiume e che ricorda quella iniziale di Volver con le donne intente a lustrare le pietre tombali. Ma nel vecchio film c’era una carica nostalgica temperata dalla dissacrazione – una magia degna di Almodóvar — qui elegia e basta. Come conviene a un’opera della maturità. Dice Salvador-Pedro: “L’attore più bravo non è quello che piange, ma quello che lotta per trattenere le lacrime”.
Denudamento generoso, sincero e impudico, ma rielaborato dalla finzione artistica, Dolor y Gloria è come 8 e ½ e Amarcord per Fellini e come la Recherche per Proust: un’operazione di scavo su un passato di dolori e di emozioni. Molte le ferite aperte con cui fare i conti. Lo è il ricordo della prima pulsione erotica. Lo è il ritorno di un vecchio amore che si riaffaccia grazie a un testo del regista adattato per il palcoscenico. Lo è il rimorso di non avere onorato la promessa alla vecchia madre di farla morire al paese. Nel gioco scenico, c’è un acquerello ritrovato per caso, come la Madeleine proustiana, che chiuderà questa ricerca del tempo perduto: sarà la molla per tornare al cinema. “El primer deseo”, il primo desiderio, sarà il titolo del film-salvezza annunciato nell’ultima scena.
di Giorgio Rinaldi