Dolls
Nell’anno del burattino, si fanno largo, a spallate silenziose, le marionette di Takeshi Kitano. Il regista della violenza e dell’ironia, messo da parte, temporaneamente, il suo desiderio feroce di bastonare fisicamente, relegato in un angolo, abbandonato su una sedia, quel “Beat” Takeshi con gli occhiali scuri ed il ghigno di chi sa che chi colpisce per primo colpisce due volte, si rifugia dietro alla macchina da presa per regalarci il suo sogno più bello. Un sogno al confine con l’incubo, figlio dei Sogni di Akira Kurosawa e di tutta la mitologia giapponese dell’accettazione passiva del destino, anche il più avverso. Tre storie diverse ma legate indissolubilmente da un filo rosso che le costringe a camminare insieme, nel lento scorrere del tempo e delle stagioni, che è il modo decorativo della vita per dimostrare il suo passaggio e il suo assoluto disinteresse nei confronti delle vicende umane.
Kitano si affida all’ironia della sorte e parla di morte e di amore, dell’amore per la morte e dell’amore che porta alla morte, confondendo le carte fino a sovvertire il luogo comune che vuole necessariamente che il secondo vinca sulla prima come il bene sul male. Non di amore consolatorio, dunque, si tratta, ma di quell’amore che, follia suprema tra le follie umane, porta a scelte (obbligate) definitive ed irrevocabili, necessariamente dolorose. In un libero arbitrio che non ha nulla di libero e ancor meno di arbitrario, le sei figure, le sei bambole senza fili del film abdicano al buon senso e si abbandonano ad una pazzia incosciente, lirica e sublime fatta di rinunce estreme: si può rinunciare alla propria vita per stare vicino a chi è impazzito per causa nostra; si può rinunciare alla propria giovinezza per attendere qualcuno che non tornerà mai più; si può rinunciare alla propria vista per potersi conformare ad un desiderio infantile e futile; si può; si deve.
La violenza, ingrediente così presente e saporito nelle opere precedenti, qui si cristallizza, si astrae dal gesto, anche truce, per diventare pessimismo cosmico; ma, “sedendo e mirando”, ci si accorge di come, in fondo, questo non sia altro che il pessimismo di chi ha guardato bene in faccia il destino e ne ha capito, e carpito, il segreto. La bellezza dell’immagine, la perfezione della fotografia, la scelta delle inquadrature che si ostinano a ribadire la straziante bellezza del creato, cercano solo in parte di arrivare ad un intento comunque consolatorio. Dal forte contrasto, invece, tra la bellezza del “contesto” e la tragicità del “testo”, che la locandina, vera e propria opera d’arte, esemplifica in maniera perfetta, si coglie tutta l’indifferenza della natura per le miserie di questi burattini inutili che qualcuno si diverte a far soffrire. E non c’è, non ci può essere, consolazione nell’attesa o nella sospensione di una pena che risulta essere peggiore della pena stessa, quand’anche si trattasse di pena di morte.
Un film denso e rarefatto, leggero e immensamente grave che ci ricorda, se ce ne fossimo dimenticati per colpa di qualcuno, che la creazione artistica è, prima di tutto, il tentativo di lasciare il mondo un po’ migliore di come lo si è trovato. L’arte può salvarci la vita. L’arte può salvarci dalla vita.
di Ludovico Bonora