Dogman

La recensione di Dogman, di Luc Besson, a cura di Isabella Insolia.

Luc Besson è tornato dietro la macchina da presa dopo quattro anni di distanza da Anna (2019), e lo ha fatto con Dogman, un thriller drammatico contorto presentato in concorso a Venezia 80. Il voyeurismo del regista francese rimane prominente per tutta la durata dell’opera dove questa volta non c’è una donna-assassina in abiti succinti, ma il racconto bizzarro e a tratti folle di Titular “Dogman” Douglas (interpretato da un bravissimo Caleb Landry Jones), un uomo invalido sulla trentina del New Jersey. Douglas soffre, lotta e affronta la sua disabilità come uomo ferito dalla vita che trova la salvezza e il riscatto personale attraverso il suo amore per i cani, dopo aver sviluppato una percezione distorta dell’affetto e della tenerezza durante l’infanzia.

Fin dalla prima sequenza Dogman si rende un film promettente: durante una notte piovosa, la polizia ferma un furgone e trova Douglas seduto su una sedia a rotelle che indossa un completo di Marilyn Monroe e trasporta dei cani, di ogni forma e dimensione. Si apprende subito come gli animali siano i suoi “bambini” perché come lui sono stati abbandonati e risiedono ai margini della società aspettando qualcuno che se ne prendi cura. E mentre li addestra per bene come suoi adepti, Douglas si diverte nell’interpretare brani di Édith Piaf e Marlene Dietrich vestito da drag queen. D’altronde non gli resta che il teatro shakespeariano e i locali dove esibirsi perché con lui la vita è stata troppo ingenerosa. Sopravvive con una storia di abusi e violenze domestiche alle spalle, abbandonato dalla famiglia ed emarginato dalla società. Nato da un padre violento (Clemens Schick) e una madre debole, è riuscito a trovare un briciolo di affetto al canile, nel vero senso della parola, dato che il ragazzo è stato rinchiuso in gabbia dall’età di cinque anni.

Il film si sviluppa come un racconto in prima persona. È lo stesso Douglas che narra le sue vicende andando a ritroso nel tempo mentre si confessa a Evelyn (Jojo T. Gibbs), una psichiatra che lo deve valutare dopo l’arresto e con la quale stabilisce un rapporto di fiducia e un legame di empatia. Da qui la storia viene articolata attraverso una serie di flashback nei quali si rievoca il doloroso passato del protagonista, composto di eventi terribili e tragici solo da immaginare. “Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane” recita l’epigrafe dello scrittore e poeta Alphonse de Lamartine, ed è proprio l’amore sviscerato e incondizionato per i cani a guidare Dogman nel suo percorso a ostacoli che è la vita.

Gestire i temi trattati nel film non è semplice, ce ne sono troppi e talvolta confusi, ma Besson è capace di maneggiarli, seppur non alla perfezione e a tratti in maniera sgangherata. Il merito della riuscita del lavoro va dato senza dubbio ad un ispiratissimo Jones, il quale si conferma un perfetto strambo del cinema, regalando un’interpretazione magnetica e dolente, suggestiva e commovente, candidandosi per la conquista della Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile di Venezia 80. Degna di nota anche la performance canina, in cui ogni cane sembra essere nato per stare davanti la macchina da presa. Apprezzabile la fotografia cruda firmata da Colin Wandersman, il quale rende l’idea della sofferenza repressa di Douglas.

Per concludere, Dogman si palesa come uno spettacolo affascinante, con un inizio sorprendente. Peccato che nel corso delle sequenze la storia si sgretoli, diventando un film disturbante e ridicolo, come se non avesse trovato un posto in cui stare. È alquanto incomprensibile, ad esempio, il modo in cui Besson collega la terribile infanzia di violenza e abusi del protagonista alla successiva identità queer. Il regista francese ha consegnato una storia troppo insolita e cruda per raggiungere il successo mainstream e ritornare agli sfarzi degli anni Novanta che lo hanno reso tra i cineasti più innovatori della settima arte


di Isabella Insolia
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