Django Unchained
Siamo nel Sud schiavista e intollerante degli USA a due anni dallo scoppio della guerra civile. Il dottor King Schultz – sedicente dentista tedesco che si aggira per quelle lande malsane a bordo di uno strano carrozzone sovrastato da un dente gigantesco ma che in realtà è uno spietato e implacabile bounty killer – incontra quasi per caso uno schiavo di colore, Django, dal quale riesce ad avere preziose informazioni su tre fratelli ricercati ai quali sta dando la caccia perché sulle loro teste pende una taglia particolarmente ricca.
Dopo aver deciso di affrancarlo regalandogli la libertà, lo converte nel proprio aiutante e lo porta con sé in una serie di missioni più o meno scabrose durante le quali tra i due si cementa ben presto un solido rapporto che va aldilà del puro interesse professionale e che sconcerta chiunque li veda incedere insieme a cavallo (essendo all’epoca proibito per una persona di colore sia il cavalcare che ovviamente il portare armi). Al punto che Django non esita a confessare al dentista di essere alla ricerca disperata della bella moglie, anch’essa schiava e venduta tempo prima in una fiera nel Mississippi senza che poi ne avesse più avuto notizie.
Quando i due arrivano nell’immensa tenuta di un possidente schiavista e negriero del Tennessee che commercia in un tipo specialissimo di schiavi (si tratta dei cosiddetti Mandingo, ovvero possenti gladiatori che si esibiscono in combattimenti all’ultimo sangue su cui i latifondisti scommettono), Django scopre che la moglie è a servizio proprio lì. Da quel momento in poi la sola cosa che conti per lui è la liberazione della donna e la vendetta contro quanti hanno abusato di lei maltrattandola quando ha tentato di fuggire.
Dopo aver sperimentato ogni forma di genere cinematografico arrivando a forme di riuscita anche se bizzarra commistione che ne hanno fatto un unicum nell’intera storia del cinema, con Django unchained Tarantino ha finalmente potuto cimentarsi con il genere che egli stesso ha più volte ripetuto essere il suo favorito in assoluto. Ovvero quel western visto come forma quintessenziale di tutto ciò che vi è di più americano al mondo, e cioè la storia della conquista di una terra sconfinata all’inseguimento di quello che poi sarebbe diventato per anni il sogno americano dell’affermazione dell’individuo spinto dalla forza della volontà. Un western però rimeditato e rivisto attraverso la lente deformante della rivisitazione fatta a fine anni ’60 in Italia – il cosiddetto spaghetti-western – e che in Sergio Leone e nei suoi discepoli ha trovato gli interpreti più significativi (amatissimi da Tarantino che non ha mai nascosto la propria idolatria per la trilogia leoniana del dollaro).
Non si creda però che questo ottavo film del talentuoso regista di Pulp Fiction possa essere ridotto a un tributo affettuoso e spassionato al western all’italiana. I rimandi a un certo tipo di temperie estetico cinematografica abbondano. Su questo non c’è dubbio. Se non bastassero il titolo e il nome del protagonista (che rimanda direttamente a Django, film di culto diretto nel 1965 da Sergio Corbucci e interpretato da un Franco Nero agli esordi e destinato a diventare il capostipite di un certo tipo di prodotti molto violenti e crudi che poi costituirono uno dei filoni centrali del cosiddetto spaghetti western), a confermare questa volontà celebrativa ci sono alcuni dettagli insindacabili. A partire anche solo dai titoli di testa con caratteri rossi sullo sfondo di un paesaggio desertico che ricorda molto da vicino quello spagnolo di Tabernas dove Leone girò la trilogia del dollaro, passando per la canzone scritta da Luis Bacalov e cantata da Rocky Roberts con la quale si apriva il film di Corbucci, o ancora un cameo del settantaduenne Franco Nero. Che qui veste i panni di un odioso schiavista che partecipa a un terrificante combattimento tra Mandingos e che volutamente – nella versione originale – viene fatto parlare in italiano e al quale è affidata una battuta che ha il sapore della citazione indiretta: rivolgendosi allo strano “negro” ammesso al cospetto dei bianchi nella villa del latifondista Di Caprio, il personaggio di Franco Nero gli chiede come si chiami e, non avendo bene afferrato il nome, se lo fa ripetere con lo spelling, annuendo soddisfatto dopo aver capito che si tratta di qualcosa che gli ricorda un pezzo del proprio passato.
Ma il film di Tarantino non è ovviamente soltanto questo, ovvero un tributo alla via italiana al principale genere cinematografico made in USA. Il suo è un film assolutamente tarantiniano, nel quale ci sono tutte le componenti che hanno reso celebre il suo cinema (anche soltanto con sette film) e che oggi lo hanno convertito in uno dei pochissimi registi il cui nome attira al cinema la gente più di quanto non facciano le grandissime star hollywoodiane coinvolte in pellicole di successo.
Django Unchained è sì un western celebrativo ma, del tutto paradossalmente, è molto più vicino a certe parabole crepuscolari alla Sam Peckinpah di quanto non sia alle parodie più o meno volontarie sfornate a catena dall’industria cinematografica italiana dalla metà degli anni ’60 in poi. Del Django di Corbucci resta un clima di violenza cupa e sorda a ogni slancio di umanità residue, che però è anche un tratto tipico di tutto il cinema di Tarantino, sempre teso a raccontare la realtà nel suo esplodere e implodere in cortocircuiti incontrollabili che avvolgono i protagonisti trascinandoli in un vortice di sangue e passione.
Ma se qualcuno pensasse che siamo di fronte soltanto a un tributo allo spaghetti-western elevato al rango di opera di tutto rispetto dalla personalità di un regista capace, caso isolato in tutto il mondo, di sfornare prodotti di genere senza rinunciare mai al proprio marchio di fabbrica e al proprio slancio creativo, sarebbe davvero molto lontano dal vero. Come quasi tutti gli altri film di Tarantino, anche Django Unchained è una sorta di frullato tutti i gusti in cui c’è spazio sia per cavalcate e scorribande intellettuali in ogni direzione in cui il pensiero si può spingere che per travisamenti voluti della grande Storia: se in Bastardi senza gloria era la Seconda Guerra Mondiale a essere riveduta e corretta ad usum delphini con Hitler che saltava per aria in un attentato all’interno di un cinema parigino, in Django Unchained tocca al delicatissimo tema dello schiavismo e delle sue profonde implicazioni socio-culturali a essere intenzionalmente travisato a fini spettacolari con il Django di Jamie Foxx che nel giro di un’ora di film si trasforma da rozzo schiavo semianalfabeta in paladino della causa negra come un perfetto eroe da blxploitation da metà anni ‘70. E quindi non deve stupire se, all’interno di un contenitore tanto rigido quanto il western a metà tra il tramonto crepuscolare e le epopee violente della sua versione italiana, ci sia spazio per temi di altissimo spessore quali la riflessione sul passato sordido dell’America schiavista, sulle contraddizioni tra etica comportamentale e istinti brutali, sull’amore come motore immobile e permanente di ogni azione umana, sullo sfruttamento delle minoranze così come sull’iniquità degli squilibri sociali e via dicendo.
Qualora poi tutto questo non bastasse a rendere più tarantiniano di ogni altro film di Tarantino questo complesso e anarchico divertissement, chiunque si convincerebbe della presenza di un inequivocabile marchio di fabbrica pensando al ruolo centrale giocato dalla vendetta – sentimento molla che ispira la maggior parte dei personaggi creati dal Tarantino sceneggiatore e demiurgo narrativo delle proprie pellicole – e dalla ricerca affannosa che ne fa Django dopo aver ritrovato la bella moglie che credeva perduta.
Se tutto funziona quasi alla perfezione (compresa una sceneggiatura magnifica per calibratura di toni e ricercatezza nel dialogo), lo si deve però anche alla scelta degli attori chiamati a interpretare i ruoli chiave della pellicola, confermando come Tarantino sia un talento registico anche in quel campo, laddove cioè riesce a convertire in icone spontanee dei professionisti apparentemente non tagliati per adattarsi alla sua idea di cinema. E se già in Bastardi senza gloria l’intero mondo del cinema si era accorto che il viennese Christoph Waltz aveva tutte le carte in regola per diventare uno degli interpreti più incisivi tra i colleghi della sua età (non a caso in quella pellicola era stato premiato con un Oscar per l’interpretazione del gelido colonnello Landa), qui avranno modo di confermare come quell’exploit non sia stato il classico goal della domenica da parte di un neofita fortunato proprio come capita agli esordienti.
Il suo dentista cacciatore di taglie (dalle cui labbra escono alcune battute destinate a diventare di culto e che nella prima ora e mezza di film giganteggia michelangiolesco sovrastando uomini e cose dal basso della sua statura) resterà per un po’ nella memoria di tutti, sospeso com’è tra gli abissi amorali della professione che riesce a far passare per il braccio violento della legge messo al servizio della comunità e l’atteggiamento progressista ante litteram che ha prima nell’affrancare Django elevandolo da bestia al rango di essere umano temuto e rispettato anche dai bianchi che non ne vogliono accettare la condizione di negro in sella e con la pistola in mano, e poi nell’andare fino in fondo in quella che è una vendetta privata che in teoria non lo riguarderebbe minimamente.
Se poi Jamie Foxx – anch’egli già premiato con una statuetta in Ray – fa del suo meglio per resistere alla strabordante presenza di Waltz e dare così rude concretezza al suo Django (che, a livello di scrittura, appare fin troppo moderno negli atteggiamenti e soprattutto nella capacità che ha di adattarsi in poco tempo alla dimensione di uomo libero e quasi preparato alla vita pubblica che il dentista gli cuce addosso), non si può rimanere indifferenti al latifondista disegnato da Leonardo Di Caprio, qui forse impegnato in una delle interpretazioni più convincenti di una carriera istrionica già costellata di grandi successi a livello di immedesimazione totale nei personaggi interpretati, ma mai così efficace nel tratteggiare il difficile profilo di un uomo che compendia in sé due secoli buoni di razzismo e intolleranza razziale a stelle e strisce.
Trama
Liberato da un bizzarro bounty killer tedesco che si finge dentista itinerante, poco prima dello scoppio della Guerra Civile americana uno schiavo di colore sfrutta le conoscenze e l’abilità del suo astuto protettore per vendicarsi in un bagno di sangue di chi lo ha separato dalla bella moglie accrescendo le sofferenze di una vita già segnata dagli orrori della condizione servile.
di Redazione