Dietro i candelabri

Alla maggior parte della gente (soprattutto se si tratta di persone nate dopo gli anni ’70 e non di nazionalità americana), il nome di Władziu Valentino Liberace – noto ai più semplicemente come “Lee” o col solo cognome – non dice forse nulla. E invece è stata la più grande e trasgressiva star della musica pop a cavallo tra gli anni ’60 e ’70. Un pianista a metà tra il virtuosismo classico e lo sberleffo del boogie-woogie capace di far registrare il tutto esaurito a ogni concerto ma anche di imporre presso il pubblico che lo adorava l’immagine fortemente in anticipo sui tempi del musicista tutto eccessi estetici, esagerazioni comportamentali, trionfo del kitsch ornamentale ma anche tanta indiscussa qualità nel momento in cui posava sulla tastiera le mani ingorgate di anelli e monili di ogni foggia e fattezza.

Figlio di un immigrato di Formia che si trasferì giovanissimo negli USA per cercar fortuna e di una polacca, Liberace studiò al conservatorio del Wisconsin prima di riuscire a imporsi come musicista di music hall diventando ben presto una delle più fulgide stelle del panorama di Las Vegas (dove i suoi concerti gremiti soprattutto di signore over 40 in delirante adorazione erano esauriti a distanza di mesi e dove arrivò a stabilire il non indifferente record di essere stato per almeno vent’anni l’artista col cachet più alto al mondo), per essere poi consacrato in maniera definitiva in quel tempio della musica pop di facile consumo che era il newyorkese Radio City Music Hall.

Eccessivo in tutto (ma anche nel talento che ebbe in abbondanza e che asservì a fini semplicemente scenici senza mai cercare di fare il grande salto verso la musica di più alto profilo), Liberace fu in effetti il primo musicista pop a convertire la propria stessa vita in una performance permanente nella quale alla stravaganza dell’abbigliamento con cui non solo si presentava al pubblico ma viveva anche nella vita di tutti i giorni faceva da contorno una celebrazione forsennata del kitsch in ogni sua più vistosa manifestazione. Al punto da vivere in una casa-museo di vaghe ascendenze dannunziane in stile da lui stesso definito “palatial kitsch” all’interno della quale, tra le svariate amenità, il soffitto della camera da letto padronale riproduceva a grandezza quasi naturale niente po’ po’ di meno che la michelangiolesca volta della Cappella Sistina.

Una vita larger than life (nella quale ci fu spazio anche per esperienze da attore e di intrattenitore televisivo nel seguitissimo “Liberace Show”) al cui confronto i presunti eccessi di starlette del calibro di Lady Gaga e delle molte sue imitatrici apocrife impallidiscono come fotocopie riuscite male rispetto a un originale troppo caratterizzato per poter essere riprodotto in maniera fedele. Un personaggio, Libarace, talmente popolare e capace di imporre la propria sintesi di trasgressione programmatica e talento innato da meritarsi non solo una piastrella nella celebre Walk of Fame losangelina ma anche una riproduzione in cera a grandezza naturale nel museo londinese di Madame Tussauds.

Da sempre affascinato da una figura tanto originale nella sua unicità, l’indefesso Steven Soderbergh (che anche dopo questa sua ennesima fatica, così come dopo il recentissimo Side Effects, ha dichiarato di nuovo di essere al suo ultimo film) aveva già pensato quattro anni fa a convertire in un potente biopic il libro di memorie di Scott Thorson, il giovanissimo orfano di cui Liberace si invaghì quando era ormai ultra sessantenne e col quale ebbe una movimentata relazione omosessuale che è appunto al centro del film. Ma la malattia diagnosticata a Michael Douglas nel 2010 (ovvero l’attore cui Soderbergh aveva pensato per il personaggio di Liberace) fece per il momento accantonare il progetto, senza che la soluzione di ripiego di Robin Williams aiutasse in qualche modo a farlo decollare comunque.

Tenace e deciso a non mollare la presa, il prolifico autore georgiano ha però avuto la pazienza di aspettare che Douglas vincesse la sua personale battaglia con il cancro e fosse pronto ad affrontare la sfida quasi impossibile di vestire i panni di un personaggio tanto difficile quanto scomodo (soprattutto per le scene non proprio seminariali in cui lo si vede in più di un’occasione impegnato in battaglie di letto con il giovanissimo e nerboruto amante). Risolto il problema non da poco dell’attore protagonista, Soderbergh si è trovato di fronte uno scoglio ben più ostico da superare: malata di perbenismo com’è anche oggi, l’industria del blockbuster hollywoodiano ha bollato la biografia degli ultimi anni di vita del trasgressivo Liberace come “troppo gay” per poter essere prodotta e proposta al pubblico, rifiutando così di produrre quello che avrebbe potuto essere un successo garantito sulla carta ancora prima di arrivare nelle sale.

E quando sembrava che ormai tutto fosse perduto e che non fosse possibile reperire i capitali necessari per assicurarsi due star di sicuro richiamo per i ruoli dei personaggi centrali della vicenda ma anche per ricostruire i set faraonici della villa di Liberace oltre che i suoi megalomani costumi di scena tempestati di diamanti Swarowski (ditta della quale il musicista diceva di essere uno dei maggiori azionisti), Soderbergh dovette arrendersi all’idea di degradare la sua idea dal grande al piccolo schermo. Cosa avvenuta puntualmente visto che Behind the Candelabra alla fine è stato prodotto addirittura dal canale HBO, rete specializzata in intrattenimento di facile consumo in TV ma che in questo caso ha avuto la lungimiranza necessaria per credere in un progetto dal grande potenziale.

Trasmesso appunto sul canale HBO la sera del 26 maggio di quest’anno e poi presentato fuori concorso a Cannes, il film si è rivelato subito un grande successo, contribuendo da una parte a un’operazione nostalgia che milioni di fan americani hanno mostrato di apprezzare, e dall’altra a far conoscere aldiquà dell’oceano una figura immeritatamente offuscata dai molti epigoni che a Liberace devono moltissimo senza forse saperlo nemmeno per quanto concerne la capacità di convertire le proprie esistenze in performance artistiche ambulanti corredate da un adeguato contorno di paillettes e lustrini. Non devono quindi stupire gli 11 Emmy Award assegnati al film che non potrà comunque partecipare alla notte degli Oscar proprio per la sua origine televisiva.

Scritto dall’autore di P.S. I Love you Richard LaGravanese sulla scorta del libro autobiografico Behind the Candelabra: My Life With Liberace di Scott Thorson ancora inedito in Italia, Dietro i candelabri (titolo che allude al vezzo che Liberace aveva di suonare con due candelabri sul pianoforte) racconta i cinque anni di relazione tra il vampiristico Liberace e l’imberbe orfano Scott Thorson. Incontratisi per caso nel 1977 tramite un comune amico al termine di uno dei tanti concerti di Liberace a Las Vegas, i due uomini avevano all’epoca quasi cinquant’anni di differenza.

Il che non impedì al più anziano marpione di attirare il giovanissimo e inesperto Scott nelle spire di un amore monopolizzante in cui l’ansia di possesso fisico e spirituale arrivò a punti di assurdo sadismo estetico col povero Scott costretto a sottoporsi a ripetuti interventi di chirurgia plastica al fine di farsi modellare i lineamenti del viso a immagine e somiglianza di quelli del suo attempato amante in un delirio di onnipotenza narcisistica.

Opera sartoriale di notevole spessore in cui il rigore della ricostruzione d’ambiente va di pari passo con lo scavo nelle pieghe della  personalità di Liberace (che non ammise mai la propria omosessualità per paura di alienarsi le simpatie delle fan, arrivando a querelare le testate che osarono ventilarne l’ipotesi), Dietro i candelabri è un melodramma d’amore gay che ha la capacità rara di asservire i canoni un po’ stucchevoli del cinema biografico tradizionale a quelli del ritratto controcorrente di un individuo troppo in anticipo sui propri tempi per poter essere compreso appieno dai contemporanei senza incappare in facili stroncature votate al pregiudizio nei confronti della diversità programmatica di vita scelta come cifra unica del proprio stare al mondo lasciandovi traccia durevole nel tempo.

Alla fine delle quasi due ore di sarabanda coloratissima tra sfilate camp su fondali da rivista di design patinato, pirotecnie da circo travestite da show musicali, sussulti del cuore in salsa gay e stravaganze assortite non si ha nemmeno il tempo per scandalizzarsi al vedere Jason Bourne a letto con Gordon Gekko. E si finisce così col lasciarsi conquistare ancora una volta dalla scaltra messa in scena che Soderbergh sa tirar fuori dal mélo di LaGravanese, rivoluzionando le regole canoniche del film biografico e riuscendo così a dare il senso compiuto di un’intera epoca grazie soltanto allo scavo in cinque anni di una vita.

E se questo accade, in buona parte lo si deve alla prova di Michael Douglas. Michelangiolesco come le copie della Cappella Sistina che lo osservano dal soffitto della camera da letto nella sua versione gigiona di Liberace e non ostante la grave malattia con la quale ha lottato per tre anni, il sessantasettenne redivivo potrà solo rimpiangere di non poter essere nella cinquina di quanti si contenderanno la statuetta per il miglior attore protagonista la notte degli Oscar.

Per il resto il suo Liberace è così maniacalmente vero (per capire a che punto di mimesi assoluta sia arrivato Douglas nel riprodurre la voce e la gesticolazione del vero Liberace basta cercarne su Youtube qualche spezzone dei concerti) da sembrare quasi un miracolo. Ed è un peccato che il pubblico italiano non possa apprezzare in pieno la complessità dell’operazione, privato come sarà della voce originale di Michael Douglas dovendosi accontentare della piattezza insignificante di un doppiaggio mai tanto ingiustificato come nel caso presente.

Se però Douglas arriva a vertici interpretativi assoluti, a dargli una mano ci pensa Matt Damon: chiamato a interpretare un ragazzino di diciassette anni pur avendone ormai più di quaranta (il che non sfugge ed è uno dei pochi punti deboli dell’intera operazione), ma soprattutto a piegare la propria natura di abbonato a ruoli adrenalinici o comunque sempre impegnati “dalla parte giusta” della barricata ideologica a quella inedita di giovane gay remissivo, Damon non sembra mai a disagio. Nemmeno quando il copione lo chiama a momenti di vero imbarazzo scenico (vedansi un paio di sequenze in cui il sesso con l’insaziabile Liberace è mostrato senza veli) che Soderbergh ha cercato di superare mettendosi egli stesso dietro la telecamera a mano.

Trama

I cinque anni di complessa relazione omosessuale tra il pianista e showman Valentino Liberace (all’epoca quasi settantenne e al culmine di una carriera impareggiabile fatta solo di successi e bagni di pubblico) e il diciottenne orfano Scott Thorson che ne divenne il toy boy accettando di anche di sottoporsi a macchinosi interventi di chirurgia volti a trasformarlo in un clone del suo amante-mentore.


di Redazione
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