De Palma

L’ 11 settembre, data simbolo per gli Stati Uniti d’America e per il mondo intero, il regista italo-americano (di origine pugliese) Brian De Palma compie 75 anni. La Mostra del Cinema di Venezia l’ha appena omaggiato con il premio Jaeger-Le Coultre ma soprattutto con il bellissimo documentario-omaggio De Palma, un progetto che i filmmaker Noah Baumbach (l’autore di Frances Ha) e Jake Paltrow (fratello minore dell’attrice Gwyneth) hanno coltivato per più di 5 anni. Dopo Altman di Ron Mann passato lo scorso anno, Venezia propone dunque un altro intenso ritratto di un grande cineasta americano; vivente questa volta, e assai più giovanile di quanto l’anagrafe potrebbe far supporre. Eppure, per lungo tempo, forse per il suo talento così eclettico, o per alcuni film “troppo avanti” e che per questo erano andati male al box office, o anche per aver saputo attraversare tanti, magari troppi, generi – dall’horror alla commedia, dal film di guerra al gangster movie, dal thriller alla fantascienza ai film d’azione – è stato a lungo misconosciuto dalla critica e temuto dai produttori. Eppure, anche se, a differenza di altmaniano, nessuno ci pare abbia coniato l’aggettivo “depalmiano”, in tutta la sua enorme e articolata filmografia (che copre ormai, per i soli lungometraggi, quasi 50 anni), De Palma ha saputo imprimere sempre la sua particolare cifra autoriale (di molti suoi film è stato poi anche sceneggiatore, e in qualche caso produttore).
Nel segno stilistico di una voluta “intimità”, Baumbach e Paltrow, senza mai apparire né in video né in audio, inquadrano De Palma con camera fissa in piano americano o primo piano, vestito in maniera assai informale nel soggiorno di casa sua. E’ lui il soggetto e l’oggetto assoluto del film, ma il montaggio dei due registi (da oltre 40 ore di girato) impagina in maniera assai fluida e intelligente un lungometraggio di quasi due ore (che volano via e che alla fine vorremmo continuino ancora; nel DVD ci saranno comunque diversi extra ulteriori, assicurano i due registi). La trama sono i suoi rutilanti racconti e aneddoti, alternate a scene e sequenze di tutte o quasi le sue opere, e a quelle di tanti altri film che lo hanno ispirato, in primo luogo i film di Hitchcock, di cui non esita a definirsi ‘l’unico allievo’.
L’assenza di falsa modestia, il tono diretto e sincero, l’onestà intellettuale nel riconoscere i suoi (tanti) fallimenti e successi, l’ironia, su se stesso e sui colleghi (“l’ironia è l’unica arma per sopravvivere a Hollywood”), costituiscono del resto la cifra umana del cineasta che il documentario ci restituisce a pieno. Ironia necessaria anche perché “il pubblico reagisce sempre in maniera opposta a quello che ti aspetti”. Eppure, insieme agli altri grandi italo-americani del cinema – Scorsese, De Niro, Coppola – ma anche con Spielberg e Lucas, De Palma seppe creare negli anni ’70 quella “new Hollywood” che per la prima volta e per un periodo almeno aprì dei varchi nelle logiche delle major, “prima che gli affaristi si riprendessero tutto”. Quegli affaristi che trattavano i film come puri oggetti di consumo e che mandarono allo sbaraglio totale – a Venezia ha confessato che è stato il suo più grande rimpianto – un film come Cadaveri e compari (Wise Guys, 1986), in fondo un piccolo budget per un regista che cui sempre Hollywood avrebbe concesso anni dopo grandi budget come Mission Impossible (1996) e Mission to Mars (2000).
Avrebbe sempre voluto far meglio, da artigiano del cinema, eppure sa, e lo riconosce, che sequenze come quella del museo di Vestito per uccidere (1980), della carrozzina che, aggiornando il genio di Ėjzenštejn, cade dalle scale della Central Station ne Gli intoccabili (1987), il piano sequenza in steady-cam all’inizio de Il falò delle vanità (1990), non sono venute male. E basterebbero questi titoli, e magari ancora, quasi citando a caso, Scarface, Carlito’s Way, Black Dhalia…per ricordare l’importanza di questo regista. Ma l’onestà di De Palma è quella che per tutto il film gli fa riconoscere di continuo l’apporto prezioso dei tanti suoi collaboratori: gli attori certo, da De Niro ad Al Pacino, da Sean Penn a Tom Cruise, ma soprattutto degli specialisti e tecnici del cinema, da musicisti come Bernard Herrmann agli incontri con Pino Donaggio ed Ennio Morricone, da direttori della fotografia come Vilmos Zsigmond a scenografi come Richard Sylbert. Perché De Palma conosceva davvero, e dall’interno, tutta la “macchina” del cinema.
Un artista dal talento comunque in primo luogo visivo. “Non parto mai da un tema o da un personaggio, ma da una costruzione, una immagine o una idea visuale, come la foto delle due sorelle siamesi che lo ispirò per Sisters (1973). Lui che in fondo ha forse inventato il cinema degli “effetti speciali”, lui che ha frantumato e moltiplicato sullo schermo i quadri e i piani, e che di recente ha fatto dialogare i diversi linguaggi e immaginari in un’opera attuale e profetica come Redacted (2007), oggi sa che la tecnica e la serialità, a Hollywood e non solo, rischiano di fagocitare l’immaginazione, ma che per fare del buon cinema ci vuole “talento, costanza, fortuna”.
E allora, “Happy Birthday”, Mr. De Palma!
di Redazione