Dark Shadows
Molto rumore per (quasi) nulla, verrebbe da dire. Preceduto da un battage pubblicitario più che furbetto (col tocco finale dell’uscita in contemporanea a livello quasi planetario onde evitare che i mariuoli della rete possano mettere in circolazione copie pirata rubacchiate qua e là rovinando così l’effetto di lancio), ecco arrivare finalmente nelle sale il nuovo film di Tim Burton. Che, diciamolo subito, mantiene molto meno di quello che sembrava promettere e rischia di scontentare anche i fan meno obiettivi del visionario regista americano.
Vista però la relativa complessità dell’operazione, è bene andare per gradi partendo dal (pre)testo che sta alla base della nuova scorribanda per immagini di Tim Burton. Tra il 1966 e il 1971 la rete americana ABC mandò in onda la bellezza di 1225 puntate di una bizzarra soap opera di fantasmi, vampiri e mostri assortiti intitolata appunto Dark Shadows e trasmessa nel primo pomeriggio. Se negli USA la serie divenne presto una delle tante di culto per gli appassionati di un certo kitsch paraletterario da sottocultura trash (uno dei quali era Jonny Depp, da sempre legato al sogno di poter un giorno vestire i panni del protagonista), dalle nostre parti il tutto non ebbe mai molta risonanza. Al punto che erano davvero in pochi quelli che, sentendo che Burton stava preparando un film su quella serie TV, ne conoscessero l’esistenza e sapessero realmente di cosa si trattasse. Sfruttando il grande successo sul piccolo schermo, Dan Curtis, il regista del tormentone televisivo, ebbe subito la buona idea di sparare a caldo due film (La casa dei vampiri e La casa delle ombre maledette, usciti a spron battuto tra il 1970 e il 1971) incentrati sui personaggi della telenovela. Poi per molti anni sul tutto discese un motivato e comprensibile silenzio. Fino al 2004, quando in Australia venne prodotto un lungometraggio destinato alla TV che rimetteva in circolazione storie e personaggi della prima serie americana.
Partendo da questa ricca sovrapposizione di elementi e da una sceneggiatura fatta su misura per gli eccessi del regista dall’emergente Seth Grahame-Smith, Tim Burton non ha fatto altro che sfornare una sua personalissima rilettura della soap e dei motivi che la alimentavano, condendola con molte delle sue ossessioni più o meno lugubri e infilando nel cast il meglio della corte dei miracoli attorale che fa di solito da abituale contorno alle sue pellicole.
Il capobanda di questa ghenga di grandi nomi ormai ospiti fissi del circo in celluloide formato Tim Burton è guarda caso proprio Johnny Depp (un bislacco duo il loro, giunto ormai all’ottavo film in una forma di simbiosi artistica quasi morbosa) il quale veste i panni di Barnanabas Collins, ricco signorotto inglese del settecentesco Maine che, dopo aver spezzato il cuore a una strega molto sexy ma poco propensa a essere rifiutata, viene per vendetta trasformato in vampiro e quindi sepolto vivo. Liberato poi in maniera del tutto casuale nel 1972, il povero succhiasangue fuori tempi massimo si vede costretto ad adattarsi alle mutatissime condizioni del mondo, trovandosi anche obbligato a sanare i numerosi mal di pancia che inquietano il suo stralunato clan ormai in rovina e a mettere al suo posto la strega che gli ha regalato la maledizione della vita eterna.
Se i fan di Burton erano rimasti a dir poco sconcertati da Alice nel paese delle meraviglie, di certo non faranno salti di gioia a vedere questa ennesima maramaldata del loro beniamino a spasso nel mondo a lui tanto congeniale dei “diversi” e delle presenze dark in arrivo da oltretomba sempre allarmanti. Del tipico armamentario bartoniano non manca proprio nulla. A partire appunto dal tema dell’individuo genialmente dispari rispetto alla normalità omogeneizzante della società allineata per arrivare a quello degli eccessi visivi proiettati su cupi scenari gotici su cui si agitano le marionette in carne e ossa del suo teatrino allestito al termine della notte.
Solo che Dark Shadows non riesce mai a decidersi tra i toni della commedia nera con risvolti sociologici e la parodia dell’horror per bocche buone, rimanendo sospeso tra tensioni che si annullano a vicenda perché tendenti in direzioni opposte. Nella prima parte – senza dubbio la migliore – le numerose gag sulle difficoltà che il vampiro protagonista ha di adattarsi alla vita degli anni ’70 sono a tratti esilaranti pur essendo “telefonate”. E lo sono proprio perché a sorreggerle è una componente di sana ironia che di rado si incontra nella cinematografia di un autore seriosamente tetro qual è Tim Burton.
Così come funziona alla perfezione l’incontro/scontro tra l’algido universo gotico in stile Sleepy Hollow dal quale proviene il protagonista e la ricostruzione fatta col sorriso sulla bocca di tutto il cattivo gusto degli anni ’70 che costituisce il contesto socio-culturale del “presente” in cui lo sventurato vampiro è stato catapultato. Tra abiti e acconciature vintage, letteratura e musica svenevole il cortocircuito comico è assicurato e la risata sale dalla pancia per salutare la genialità della trovata. Difficile non lasciarsi andare quando Barnabas legge Via col vento in riva al mare e poi incanta un gruppo di figli dei fiori citandone passi svenevoli prima di massacrarli per succhiar loro il sangue, o quando organizza una mega festa a palazzo e per far piacere alla nipote sballata invita il maledetto rocker Alice Cooper – il vero Alice Cooper qui più vampiro dei vampiri truccati ad arte – prendendolo per una donna e definendolo “la più brutta che abbia mai visto”.
Ma quando nella seconda parte le gag dell’ambientamento di Barnabas agli anni ’70 cessano di avere un senso e il vampiro si limita a lottare con la strega per vendicarsi di un’antica offesa, la freschezza scompare e il film diventa greve e posticcio nel suo testardo piegarsi all’urgenza di pagare pegno all’antica serie TV e a certi vezzi da horror gotico pre-romantico che hanno sempre tanto affascinato Burton. Finendo purtroppo col perdersi in una lunga e tediosa serie di risse in salsa sovrannaturale con contorno indigesto di giochetti computerizzati che puzzano di Twilight e dintorni, e fanno scadere il film in un anonimo esercizio di fuochi artificiali tutto testa e niente cuore.
Peccato perché erano in molti ad aspettare Burton al varco dopo aver sofferto subendo al cinema quell’enciclopedia visuale del peggio di un autore che era Alice nel paese delle meraviglie. Ma anche perché il cast stellare chiamato a raccolta intorno all’immancabile e ormai totalmente burtonizzato Johnny Depp (con la fida moglie Elena Bonham-Carter nei panni di una strizzacervelli alcolizzata e poi vampirizzata da Barnabas, Michelle Pfeiffer in quelli della matriarca Collins e svariati camei di lusso quali quello del simbolo dell’horror di razza Christopher Lee o dell’attore che nella serie TV vestì i panni del vampiro) forse avrebbe meritato di essere usato in maniera più costruttiva e meno macchiettistica. Così come il pubblico italiano meriterebbe di non essere privato dal doppiaggio di uno dei pregi indiscutibili del film. Ovvero l’inglese arcaico e super British che esce dalla bocca di Depp/Barnabas e che crea un voluto effetto straniante nel suo cozzo lessicale e accentuativo con l’americano bofonchiato e risibile per povertà lessicale che parlano invece i personaggi del 1972.
Trama
Trasformato in vampiro e sepolto vivo per vendetta da una strega cui ha spezzato il cuore nel lontano 1760, il ricco e fascinoso Barnabas Collins si risveglia duecento anni dopo per scoprire che il maniero avito è in rovina e che i resti della sua famiglia sono un insieme di individui bizzarri incapaci di vivere in sintonia con il resto della comunità. Deciso a mettere insieme i cocci, il malcapitato scopre però che anche la strega cui aveva spezzato il cuore si aggira dalle stesse parti. Il loro nuovo incontro/scontro porterà a scintille fatali.
di Redazione