Cous cous

Dai cantieri del porto di Sète, vicino Marsiglia, gli imprenditori traslocano i loro affari nei paesi dove la manodopera costa meno, mentre in Francia preferiscono lavoratori giova-ni e precari a quelli invecchiati che non reggono più i ritmi crescenti. Caso da manuale dell’economia politica nell’epoca della globalizzazione. Le conseguenze, a Sète, si abbattono per esempio su un piccolo uomo di nome Slimane, e hanno l’inesorabile corso di un meccani-smo tragico. Scelta drammaturgica potente, che in parte fa dimenticare in Cous Cous (Premio speciale della Giuria all’ultimo festival di Venezia) certe punte manieristiche dello stile, (quasi) tutto macchina a mano a ridosso degli attori.
Il “vecchio” Slimane, i suoi decenni di lavoro al cantiere navale se li porta tutti stam-pati sul volto e sul corpo legnoso. E’ della prima ondata di immigrazione magrebina, una comunità che, giunta ormai alla terza generazione, ha trovato in qualche modo una via per integrarsi. Vive nella piccola pensione della sua amante Latifa, ma non manca di far visite frequenti alla ex moglie Karima e alla schiera dei figli. Licenziato senza tanti complimenti, s’imbarca nell’impresa di aprire un ristorante recuperando, con l’aiuto della sua doppia fa-miglia, un arrugginito battello in disarmo.
L’indubbio talento di Kechiche (che già aveva dato prova di sé ne La schivata, 2003) sa trasformare la quotidianità in materia incandescente, con la macchina da presa che vive tra i personaggi, dentro i concreti rapporti familiari e comunitari, sbalzando una straordina-ria ricchezza di temi e di simboli: le tensioni tra il maschile e il femminile, il razzismo tra comunità immigrate, il precariato, la distanza tra generazioni che già non si riconoscono più in una stessa identità, i sentimenti privati presi tra amori, solidarietà, gelosie e diffidenze. Questo allegro caos esistenziale di grande spessore umano precipita nella lunga sequenza finale, prendendo la forma di narrazioni più usate, con il classico incidente drammatico che ti tiene con il fiato sospeso per sapere come andrà a finire. Siamo alla cena d’inaugurazione del ristorante – ospiti banchieri, uomini politici, funzionari, tutti da convincere della bontà dell’impresa: ma quando tutto sembra andare per il meglio, non si trova più l’irresistibile cous cous al pesce preparato da Karima (il titolo originale del film, La graine et le mulet – i grani e il muggine – fa riferimento agli ingredienti di questo piatto). Il tempo cinematografi-co si dilata in una estenuante danza del ventre che la giovane Rym (Hafsia Herzi, premio Mastroianni a Venezia) improvvisa per trattenere i convitati, mentre Slimane va a cercare l’ex moglie. Inutilmente.
L’ultima inquadratura rende bene il senso del suo destino tragico: un campo lungo, in cui Latifa arrancando sale in equilibrio precario le scalette della nave, sotto il peso di un’enorme pentola di cous cous preparato in fretta per risolvere la situazione. Anche que-sto ulteriore gesto di solidarietà, a Slimane non serve più. L’impresa attorno a cui si è stretta la sua famiglia è nata sotto il segno di una precarietà immensa, avendo sfidato con il cuore, ma senza mezzi adeguati, leggi potenti e decise altrove. Perciò, il beffardo fato di Slimane può travestirsi da ragazzini che gli rubano il motorino, il suo unico mezzo di trasporto, che insegue fino a morirne. Per chi non ha reti di protezione il più banale inciampo può tra-sformarsi in una caduta rovinosa: è precisamente questo il motivo per cui diciamo spietati i meccanismi sociali che dominano il nostro tempo.
di Antonio Medici