Cosa voglio di più

Se proprio si dovesse rintracciare un collegamento tra Cosa voglio di più e uno dei film precedenti di Silvio Soldini, sarebbe necessario, più che dirigere il nostro pensiero al più recente Giorni e Nuvole, tornare indietro di venti anni. Stiamo parlando de L’aria serena dell’ovest, opera densa di disagio e sofferenza ambientata in una Milano fredda e tragica abitata da innumerevoli e squallide solitudini. Due decenni dopo, Soldini torna a Milano e costruisce un’altra storia di sofferenza esistenziale, di malessere provocato dalla noia, in primo luogo, dalle abitudini piccolo borghesi,in secondo luogo. Il regista di Un’anima divisa in due esamina con sguardo algido e pessimista il decadimento di un’intera società. I sentimenti umani sono ormai cristallizzati, inariditi, ridotti a puri meccanismi codificati. Il lavoro (tantissimo), la famiglia (spaventosamente arida), i pranzi domenicali con i suoceri (inutile ogni commento), le partite in televisione e al massimo una pizza. Si tratta di un vero e proprio sistema, di un modello di vita che scaturisce da un’organizzazione politico/mediatica in grado di ingabbiare ogni sussulto, ogni tentativo di sana deviazione.

I due personaggi principali, Anna e Domenico, sono niente altro che lo scontato risultato di un processo di inarrestabile distruzione sistematica delle coscienze, degli impulsi vitali. Si tratta di individui (in special modo i componenti della famiglia di Domenico) che hanno totalmente perso la loro componente sottoproletaria e che, come già ampiamente profetizzato da Pasolini, hanno subito una triste mutazione genetica verso la piccolissima/microscopica borghesia di periferia asservita totalmente al potere economico. E tale asservimento non può che produrre nevrosi, angoscia, senso di smarrimento.
Anna e Domenico sembrano volersi ribellare a questo destino e cercano nei loro incontri sessuali, che poi si trasformeranno in vero amore, la via di uscita per fuggire dalla loro orrenda prigione sociale. Echi del Patrice Chereau di Intimacy e addirittura di Michelangelo Antonioni (vedi la protagonista femminile e un accenno musicale a L’eclisse), contribuiscono a rendere ancor più coraggioso e complesso questo lungometraggio che si avvale di un’interpretazione notevole di Alba Rorhwacher e di una prestazione, certamente professionale e di buon livello, ma più rigida di Pierfrancesco Favino.

La direzione della fotografia di Ramiro Civita appare impostata su due diversi livelli. Uno basato su una luce fredda e povera (negli interni e nella ambientazioni periferiche) che allude alla totale assenza di sentimenti vitali che contraddistingue le giornate del ceto dei nuovi schiavi del terzo millennio (ovvero gli appartenenti a quella miserabile pseudo-borghesia da hinterland di cui abbiamo già parlato). Un altro caratterizzato da una luce calda e morbida, sempre presente durante i focosi amplessi dei due amanti. Proprio le scene di sesso, girate con un forte senso di realismo, appaiono i punti deboli dell’intera operazione. Soldini non riesce a evitare di edificare tutte queste sequenze amplificando all’ennesima potenza la nevrosi sessuale di cui sono vittime i due protagonisti. Il risultato è che gli amplessi divengono tutti uguali: nervosi, muscolari, frenetici.
Anna e Domenico trovano, così, uno sfogo fisico alle loro frustrazioni, immaginano per un attimo di aver finalmente rintracciato l’amore ma poi naufragano nel mare melmoso dei doveri e dei codici.
Cosa voglio di più è dunque a mio avviso un film profondamente e terribilmente pessimistico. O forse basterebbe semplicemente dire: realistico.


di Maurizio G. De Bonis
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