Corpo celeste
Non è infrequente, nei film dell’ultima stagione, rimanere perplessi di fronte all’ultimo fotogramma, bruscamente tronco rispetto al narrato o all’atteso. Così anche “Corpo celeste” si arresta nel clou dell’evento, verso cui tende l’intera trama, il gran giorno della cresima. La meta religiosa per un’adolescente, appena ritornata nel luogo d’origine a Reggio Calabria, dopo la prima educazione in Svizzera, è lo sfondo con cui la regista e sceneggiatrice, sorella d’arte di Alba, in questa opera prima intende dipingere un affresco sociale, conducendo in contemporanea i gesti della comunità paesana e i pensieri della ragazza, Marta, curiosa, sensibile. La sua qualità più spiccata è però la solitudine, l’inadattabilità, l’isolamento esistenziale in cui si trova avvolta. Intorno a lei la famiglia, i parenti, la scuola, gli amici, tutto scivola come qualcosa di accessorio. Lo vediamo nelle immagini iniziali di festa religiosa paesana, tradizioni che risultano totalmente estranee alla ragazza acqua e sapone appena rientrata a casa.. La chiesa diviene il simbolo di un tessuto sociale inadeguato ai tempi che, nel tentativo di ammodernarsi, si snatura.
Ed è proprio su tale aspetto che vorrei concentrare la mia analisi, sul rapporto con la parrocchia, descritto con straordinaria verosimiglianza, sullo sforzo delle educatrici di mediare tra la dimensione culturale-teologica del messaggio che intendono proporre e il mondo distratto e lontano dei ragazzi, grandezze apparentemente incommensurabili per cui non c’è libro o sussidio che possa garantire il vero ascolto. La regista mi pare abbia saputo centrare proprio questa dinamica di estrema risposta modernistica all’invecchiamento delle domandine di un tempo o dei classici formulari preparatori ai sacramenti. Santa, il ritratto di catechista proposto all’attenzione, è indubbiamente simpatica, anche se forse non molto preparata, moderna, una buona casalinga che non si risparmia per nessuno, andando addirittura a sistemare piatti pronti per la settimana nel frigorifero di don Mario. Non esita, magari proprio per una difficoltà invisibile ma presumibile, incontrata negli anni, a trasformare il catechismo in una sorta di chermesse di trasmissioni televisive in cui si accendono le risposte giuste sugli episodi del Vangelo, come nei quiz, oppure si inventano canzoncine, rap di amicizia e quasi chat con Gesù (emblematica la “Mi sintonizzo con Dio, è la frequenza giusta”), non disdegnando drammatizzazioni improvvisate negli spazi ecclesiali, teatrini, balli mascherati, e tutto quanto può suscitare partecipazione attiva. Eppure, si ha la netta sensazione che tale spettacolarizzazione non veicoli affatto il messaggio: i ragazzi sembrano altrettanto distanti, preuccupati, come al solito, del vestito e poco più. Nel corso di una distratta riunione di catechismo, un’altra docente lamenta che in chiesa vadano ormai soltanto anziani e donne, gente che non ha altro da fare. La nostra protagonista tredicenne (davvero ben interpretata da Yle Vianello), troppo intelligente e sensibile per rimanere avvinta da questi eventi superficiali, non riesce però ad approdare a qualcosa di oltre: prova sì a fare qualche domanda su Gesù, sulla cresima, ma le risposte, affrettate e scorbutiche che incontra, sembrano saziarla su un interrogativo evidentemente marginale. Come si è visto nel recente “Habemus Papam” di Moretti, una chiesa svincolata dall’esperienza diretta della fede non comunica, non avvince e tantomeno convince. Difficile far sperimentare l’invisibile, rendere presente un momento storico; i ragazzi sono seduti vicini nei locali della parrocchia e sembrano non saperne bene il perché; li hanno tirati in ballo, tanto vale ballare nel modo meno noioso possibile, ritagliandosi qualche sorrisino o battuta rubata agli argomenti seri.
Altre figure ecclesiali si incontrano durante questo tempo propedeutico alla festa, in cui l’attenzione comunque si concentra su Marta, e tutte piuttosto negative; il parroco, don Mario, figura catturata più dalle ambizioni personali e dai giochi politici che dalle necessità spirituali o anche materiali della gente…; il sacerdote del paesino, dove viene recuperato il crocifisso, è spoetizzato dalle delusioni della vita, mentre il vescovo è assorto nel bocconi della festa.
Quanto alla famiglia di Marta, non sa trovare un dialogo sincero con la ragazza, sorda alle sue necessità vere, non soltanto sotto il profilo morale, agli interrogativi esistenziali, ma anche ai dubbi sulla propria autostima, sul corpo che sta crescendo e vive sensi di inadeguatezza rispetto agli adulti e rispetto ai bambini. Nessuno riesce davvero a toccare il cuore di Marta, sospesa sempre, quasi costeggiando la trama con i suoi pensieri estranei, da cui, per alcuni tratti, viene tenuto escluso anche lo spettatore. Una società falsamente spontanea, che pare rifugiarsi nei riti per ritrovare qualcosa che è irrimediabilmente perduto, quasi svuotandoli del significato di cui erano memoria. Marta, con una percezione accentuata forse dalla solitudine, sente gli animali, partecipa di dolori altrui, intuisce misteri, avverte nell’animo il riverbero della violenza, delle parole della sorella, incapace di rivivere con lei l’età appena trascorsa (ormai è maggiorenne e fidanzata, come dire è sistemata), degli attimi di dolcezza materna quasi sottratti alla dura realtà del lavoro… Società famiglia e valori tradizionali non incontrano i bisogni più reali e accesi di Marta, che non si arrende allo stato di cose, né apertamente si ribella, ma si assenta, e –questo pare il significato dell’ultima immagine- sembra cercare il senso della vita altrove, per esempio osservando gli emarginati sul greto di un fiume, oppure i residui della discarica…
di Redazione