Colonia
Ogni volta che ci si trova davanti ad un film tratto da avvenimenti realmente accaduti, è quasi d’obbligo farsi una domanda: quanto è lecito romanzare, ammesso che sia lecito, la vita vissuta per creare un prodotto maggiormente gradito al grande pubblico?
Il regista e sceneggiatore tedesco Florian Gallenberger, premio Oscar per il corto Quiero ser (I want to be…), si è documentato sul Cile di Pinochet e ha voluto raccontare un episodio imbarazzante anche per la Germania, privando però di valore storico quanto narrato. A lui interessava soprattutto la storia d’amore, le scene di torture riprese in ogni particolare, il mondo parallelo che si viveva in questa colonia–lager, in cui molti erano entrati volontariamente; tutto visto solo attraverso pochi personaggi utili per portare avanti le sue tesi. Solo marginalmente è apparso interessato al dramma di un popolo, alla denuncia di connivenze non solo in Cile ed a livelli anche altissimi, all’insulto per la libertà dei cittadini, all’impossibilità di avere idee differenti da quelle del regime.
Quando si occupa del mondo che attornia questi giovani innamorati, lo fa col taglio del thriller internazionale, del dramma che mai emoziona ma che colpisce epidermicamente. La denuncia di quanto accade in una delle tante carceri, ufficiali o ufficiose volute da Pinochet, la si rappresenta solo attraverso alcune foto scattate dal giovane e dalle scene delle torture da lui subite: per il resto, sembra di assistere ad una parodia del mondo del Nazismo in cui ogni cosa appare attraverso stereotipi mal sviluppati. Ciò provoca forte disagio, proprio perché la realtà storica è ben nota e parla del dramma vissuto da decine di migliaia di persone, di cui solo cinque sono riuscite a fuggire, e che ha provocato un numero incalcolabile di morti. Probabilmente, se avesse scelto quale co-sceneggiatore una persona più esperta rispetto al cinquantaduenne Torsten Wenzel, qui al suo primo script per il cinema, il risultato sarebbe stato diverso.
Colonia è sicuramente il film meno riuscito della scarna produzione di Gallenberger, probabilmente perché condizionato dai tanti finanziatori che gli hanno imposto alcune scelte infelici. Visto anche in originale – il film è girato in inglese – ci si accorge di come non si sia mai tentato di identificare meglio i vari personaggi anche con l’uso della loro idioma. Quindi, manca l’apporto del tedesco e dello spagnolo per raccontare più a fondo differenze ma anche coesioni tra le varie realtà della storia.
Nota dolente Emma Watson che in questa occasione non riesce a convincere, dimostrando limiti attoriali molto evidenti. Non è mai capace di credere a quanto dice, soprattutto nei momenti più drammatici in cui si richiederebbe da lei un’espressività efficace. Se la cava nello sviluppo della love story, ma è poco per reggere una prova scialba che, a tratti, fa sorridere.
Discorso diverso per il protagonista maschile, il tedesco Daniel Brühl, che conferma la sua bravura affrontando un personaggio difficile, scritto non benissimo, ma che lui riesce a fare divenire interessante. Risulta credibile, ad esempio, nei momenti in cui dimostra contro il Regime, bravo nei passaggi sentimentali, ottimo quando si propone come persona intellettualmente danneggiata per le torture.
Allo svedese Michael Nyqvist è stata chiesta l’impossibile impresa di donare credibilità al predicatore-aguzzino Paul Schäfer: capelli lunghi, sguardo spiritato, mezze frasi che fanno capire dei suoi illeciti con il dittatore cileno in una ricostruzione tragicomica di un personaggio potentissimo, temuto, addirittura stimato non solo da Pinochet.
Non va in maniera differente per la britannica Richenda Carey a cui è affidato un altro ruolo chiave, quello di Gisela, sadico ed obbediente braccio destro del predicatore. Vestita come una suora laica da manuale – capelli raccolti, abito da governante, nessun fronzolo femminile – non riesce a fornire spessore a questa donna, aguzzina forse perché non insensibile al fascino del perfido Schäfer.
In questa ampia coproduzione c’è stato spazio, dunque, per attori e maestranze di varie nazionalità: quello che è mancato è la coesione che avrebbe permesso di ottenere un film quantomeno decoroso.
Trama
Santiago del Cile, 1973. Giovane fotografo tedesco, impegnato a fianco degli oppositori del Regime, viene sequestrato dalla polizia segreta di Pinochet e di lui non si sa più niente. La fidanzata, assistente di volo della Lufthansa, scopre che è stato portato alla Colonia Dignidad, luogo inespugnabile apparentemente missione guidata da un predicatore laico di nome Paul Schäfer ma che nella realtà è un carcere-lager dal quale nessuno è mai riuscito a fuggire.
di Furio Fossati