Close

La recensione di Emanuele Di Nicola sul film di Lukas Dhont.

Poster di "Close"

Léo e Rémi sono due ragazzi di tredici anni. Molto vicini, legati in tutto e per tutto, abituati a vivere in simbiosi: si conoscono bene, dormono l’uno a casa dell’altro. Sono amici, naturalmente, e forse innamorati. Il dubbio viene prodotto dalla zona stessa della vita che stanno attraversando, ossia quell’età alle soglie della pubertà che percorre in verticale la storia del cinema, inscenata nei toni più vari a partire dal suo regista fondativo, John Hughes.

Ma la storia di Léo e Rémi non è certo una commedia. Quando i due si apprestano alla scuola secondaria, sono costretti ad allontanarsi: costretti dalle circostanze, perché vengono appellati come “coppia” o “fidanzatini”, e la mente a quell’età evidentemente non può sopportare una tale discriminazione. Léo è quello più forte, tenace nel respingere l’insinuazione e aderire alla regola sociale dell’eterosessualità; Rémi è il più sensibile, la sua identità è più definita, ama l’amico, spesso piange senza motivo (ma un motivo c’è, eccome…) e non sopporta di essere respinto.

È un film peculiare Close di Lukas Dhont, la seconda opera del regista belga, nelle sale italiane dal 4 gennaio. Uno dei primi titoli importanti del 2023, su cui vale la pena confrontarsi, per alcuni motivi. Prima di tutto quello più ovvio: la questione di genere è al centro del cinema del giovane autore, classe 1991 – due anni in meno di Xavier Dolan -, uno dei talenti esplosi negli ultimissimi anni, almeno nel circuito festivaliero, dopo Girl del 2018, candidato all’Oscar come miglior film straniero, storia di un’adolescente danzatrice transgender.

Un altro titolo, un’altra parola sola, “close”: “intimo”, “vicino”, ma anche “chiudere”. Come Léo che chiude il rapporto con Rémi, e in generale il dettato pubblico che chiude alla possibilità di una sessualità diversa proprio mentre essa si sta sviluppando. Il colpo è durissimo, le conseguenze per Rémi sono tragiche.

Colpisce molto la struttura con cui il racconto è costruito. Il film infatti conosce una brusca deviazione. La prima parte offre la dimostrazione di un talento visivo cristallino, mostrando l’idea di messa in scena del cineasta e la sua capacità di direzione degli attori, i giovanissimi Eden Dambrine e Gustav De Waele (perché i ragazzini bisogna anche saperli dirigere). Ecco che Close si apre su uno squarcio edenico: i due compagni corrono amabilmente sullo sfondo bucolico del paesaggio, sono complici, forse si amano. Il linguaggio del corpo è il loro campo di battaglia.

Qui il film si esalta: Rémi cerca Léo, proprio fisicamente, si appoggia a lui o pone la testa sulla sua pancia mentre giocano nel parco, proprio come accade davvero in ogni corteggiamento prepuberale. Ma soprattutto nelle sequenze della lotta il regista costruisce una vera e propria battaglia d’amore: in modo pre-sessuale, senza ancora conoscere il rapporto fisico, il suo funzionamento e significato, gli amici si avviluppano in un abbraccio-scontro a chiara connotazione sentimentale. Non a caso, quando il loro rapporto degrada, proprio lo scontro si fa più violento, meno amoroso.

Poi, appunto, la deviazione. Dopo la scomparsa di Rémi, Léo inizia il naturale percorso verso la presa di coscienza. Se a questo punto la dinamica diviene più prevista, quasi inevitabile, è altrettanto vero che Dhont ha il coraggio di eliminare così il protagonista, di mandarlo all’improvviso in dissolvenza: la sua scomparsa, di fatto uno shock anche per noi che guardiamo, produce un fantasma, lo spettro del giovane innamorato deluso che è il vero protagonista assente della seconda parte. Se Léo ottiene la sua epifania, è sempre e soltanto attraverso il dialogo con questa presenza invisibile, ormai perduta, arrivando a una rivelazione in absentia.

Un film meno scontato di quanto sembra, non meramente sociale e “col messaggio”, più oscuro e stratificato, capace di frugare nella zona psicanalitica della puericultura pre-sessuale. Close ha vinto il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes 2022, è dunque piaciuto alla giuria presieduta da Vincent Lindon, con dentro tra gli altri Asghar Farhadi e Ladj Ly, ma una parte della critica lo aspetta col fucile puntato, perché tende a confondere la forza dell’argomento con la sua realizzazione sottile e coraggiosa. Il tema non si mangia il film, la lotta d’amore tra i ragazzi vive in autonomia.


di Emanuele Di Nicola
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