Civil War
La recensione di Civil War, di Alex Garland, a cura di Gianlorenzo Franzì.
Poco importa se l’uscita di Civil War, ultima (per ora) regia di Alex Garland, giochi sulla quasi contemporaneità delle elezioni americane, con quel ritratto del presidente degli Stati Uniti in tinta abbronzata sotto lo spesso fondotinta. Perché Garland, a differenza dei suoi film precedenti – Men in testa – questa volta gioca a carte scoperte con lo spettatore: non importano le cause della seconda guerra civile americana, lo scontro sanguinario è solo il contesto, una sineddoche dalla quale partire e da usare per raccontare la nostra contemporaneità.
Che poi, da Annientamento a Men passando per Ex Machina non ha importanza quello che c’è intorno: le storie che mette in scena sono completamente autonome, hanno sempre e comunque una loro incredibile integrità etica indipendentemente dal contesto fantascientifico, soprannaturale o militaresco, sono frecce acuminate che si incuneano nelle nostre costanti paure attraverso concetti etici universali. Ma l’enormità di Civil War sta nel suo stratificarsi continuo: passando dalla satira politica all’apologo morale fino a diventare lucida, lacerata riflessione sull’informazione e sul ruolo sempre più politico delle immagini: mentre la democrazia collassa su sé stessa, l’informazione sembra inabissarsi per trasformarsi, prendendo tante forme quante sono le voci che la raccontano.
Per questo, il quarto film di Garland declina la deontologia delle immagini usando uno spirito politico che si mette in scena in maniera atroce, con una guerra che non è poi così lontana (né geograficamente, né cronologicamente): e in tutto questo, la sceneggiatura si diverte a far coincidere i diversi significati di to shoot – in inglese, sia sparare che scattare una fotografia -, a rielaborare quintali di narrativa audiovisiva sul collasso post-apocalittico/pre-atomico, a suggerire che immortalare un’immagine potrebbe significare anche darle un senso, nel tentativo di rendere meno sofferta la violenza senza senso della realtà.
Il racconto, come sempre, ha una lucidità, una trasparenza invidiabile, cristallina, con una dimensione oggettiva (bloccata dall’obiettivo della macchina fotografica) e una soggettiva (le frequenti inquadrature fuori fuoco, lo sguardo senza il filtro dell’obiettivo). E così come l’impassibile personaggio di una perfetta Kirsten Dunst si sacrifica nel finale contro ogni facile previsione caratteriale, allo stesso modo il film chiude facendo emergere qualcosa da un bianco accecante, glaciale: un’immagine, nera e rovente come la vita.
di Gianlorenzo Franzì