Citizen Rosi
Citizen Rosi, vale a dire il cinema come impegno ed esercizio civile, in un documentario a più voci, che ripercorre 50 anni di carriera di Francesco Rosi.
Citizen Rosi, vale a dire il cinema come impegno ed esercizio civile, in un documentario a più voci, che ripercorre 50 anni di carriera di Francesco Rosi, ma anche della nostra storia.
“Non si può capire l’Italia se non si parte da quel cortile di Castelvetrano” aveva detto Leonardo Sciascia riferendosi alla messa in scena (l’aveva definita una ‘recita a soggetto’), così scoperta e plateale, della celebre foto del cadavere del bandito Giuliano, nel luglio del 1950. E avrebbe poi ricordato che proprio a partire da quell’episodio l’Italia era rimasta un ‘paese senza verità’, in particolare rispetto ai tanti ‘delitti di Stato”. Per 40 anni (da La sfida del ‘58 a La tregua del 1997), con il linguaggio del cinema e la forza del suo immaginario, Francesco Rosi ha sempre cercato la verità, nascosta dietro apparenze, depistaggi (tanti e sofisticati) e ‘versioni ufficiali’, indagando i rapporti ad ogni livello, globale e locale, tra potere legale e illegale, tessendo un costante ‘discorso sul potere’ – sulla sua natura, meccanismi, ingranaggi – che, per un lungo tratto, ha affiancato la grande lezione letteraria e civile dello scrittore siciliano. Appare allora oltremodo significativo che Citizen Rosi, il progetto portato avanti da molti anni dalla figlia Carolina (attrice di teatro, per tanti anni al fianco di Luca De Filippo, che firma la regia insieme a Didi Gnocchi, qui anche produttrice), abbia visto la luce adesso (in anteprima alla Mostra di Venezia, fuori concorso) a poche settimane dal trentennale della morte di Sciascia. Nel film, del resto, vediamo Rosi rendere omaggio alla tomba dello scrittore a Racalmuto, in compagnia di Roberto Andò, che fu suo assistente, nel suo film-omaggio al maestro Il cineasta e il labirinto (2002).
Proprio il labirinto è la metafora che meglio descrive la capacità del potere di occultare la verità, nell’intreccio perverso e ramificato di trasversali interessi e di diverse ma concordanti azioni ed omissioni, tra lo Stato e le sue articolazioni (corpi militari, forze dell’ordine, servizi segreti, insieme, a seconda degli scenari, ai vari attori sociali, latifondisti, imprenditori, politici, finanzieri). Per non smarrire il filo, Rosi non poteva che affidarsi al rigore del suo metodo di lavoro, basato sempre su un lungo lavoro preparatorio di documentazione e ricostruzione puntuale e inoppugnabile dei fatti, ma senza offrire, né tanto meno imporre, tesi precostituite. Piuttosto, come in ogni thriller o poliziesco che si rispetti, disseminando indizi, piste, suggestioni, anche contraddittorie (come avviene nella realtà del resto), cercando sempre di illuminare il ‘contesto’ e costringendo lo spettatore a essere vigile, a dubitare e a ragionare criticamente, a completare il puzzle, anche se poi, e non certo per colpa sua, alcuni tasselli saranno mancanti (ad oggi, ad esempio, pur essendo scaduto ogni divieto, si resta in attesa della desecretazione degli atti relativi alla strage di Portella della Ginestra del 1947 e anche il ‘caso Mattei’ riserva ancora zone d’ombra, nonostante le revisioni giudiziarie intervenute a distanza di tanti anni, grazie a giudici coraggiosi).
In ogni caso, oltre a rappresentare un esempio di giornalismo d’inchiesta (mestiere che Rosi praticò, sia pure per breve tempo, prima di arrivare dietro la macchina da presa), la sua eredità è quella del grande cinema, per la sua forza espressiva e per i suoi interpreti: un nome per tutti, quello dell’immenso Gian Maria Volontè il cui volto e corpo restano indelebilmente associati ad alcuni dei suoi capolavori. Un cinema che è frutto di una visione laica dell’esistenza e delle dinamiche sociali, che non cerca catarsi, né vuole mitizzare o, al contrario, demonizzare, che ama le idee, non le ideologie. Del resto, come dice il dirigente comunista alla fine di Cadaveri eccellenti (1976, da ‘Il contesto’ di Sciascia) ‘la verità non sempre è rivoluzionaria’. Ma per Rosi, rivoluzionaria era di certo la sua ricerca.
Nelle prime scene di Citizen Rosi vediamo il regista napoletano ricevere, a Venezia nel 2012, il Leone d’oro alla carriera dalle mani del suo allievo e amico Giuseppe Tornatore, per alcuni aspetti erede di quel cinema. Nel suo discorso di ringraziamento Rosi parla della difficoltà di ‘sentirsi cittadini’ in Italia e di quanto, proprio per questo, gli avesse fatto piacere che proprio ‘Citizen Rosi’ fosse stato il titolo scelto dai curatori per un’ampia retrospettiva dei suoi film, l’anno precedente, a New York. Lo stesso Tornatore, che con lui aveva realizzato il bellissimo libro-intervista ‘Io lo chiamo cinematografo’ giustamente ricorda la sua straordinaria capacità di indignazione: un sentimento antico e nobile (assai diverso dal bieco e spesso disinformato rancore e dal disprezzo che oggi tracimano dai social), che solo i cittadini, con piena ‘dignità’ anche se indifesi rispetto ai soprusi del potere, possono provare. Non i sudditi, ai quali, al massimo, è concesso di odiare o di odiarsi tra loro (ad esempio, nelle ben note ‘guerre tra poveri’).
Citizen Rosi conferma che la strada italiana verso la piena cittadinanza è ancora lunga e che i suoi film più noti, quelli degli anni ‘60 e 70’, sono purtroppo tristemente attuali. Tra le tante testimonianze convocate da Carolina Rosi nel film, oltre ai colleghi registi, parlano infatti giudici, storici, intellettuali, giornalisti, e tra questi ultimi sentiamo Lirio Abbate affermare che le vicende di ‘Mafia capitale’ a Roma sono come un sequel di quelle napoletane de Le mani sulla città (1963).
Francesco Rosi è morto nel 2015, ma il suo ultimo film La tregua, dal romanzo di Primo Levi, è del 1997 (con emozione, sua e nostra, il regista rievoca l’unica telefonata scambiata con lo scrittore torinese, mai conosciuto di persona, poco prima della morte di questi). Oltre citato libro-intervista Rosi, come si vede nel film, continuò però a darci le sue riflessioni e i suoi giudizi, fino alla fine lucidissimi, davanti a ragazzi nelle scuole o in interviste televisive.
Scorrono dunque davanti a noi questi suoi 50 anni di carriera, dal duro ma decisivo apprendistato con Visconti sul set de La terra trema (1948), e raccontano una storia italiana, soprattutto quella del Meridione, che corre vertiginosamente all’indietro. Un paese da sempre diviso a metà: nell’esilio di Carlo Levi durante il fascismo tra gli altopiani impervi e solitari della Lucania, nei poveri mandati al macello nella Grande Guerra di Uomini contro (1970), e ancora prima, nell’emigrazione post-unitaria dal Sud miserabile che poi generò e ci restituì dagli Usa la malapianta mafiosa. Non a caso il film prende le mosse da Lucky Luciano (1973) che mette in scena la prima vera ‘trattativa’ tra Stato e mafia (come osserva il procuratore Di Matteo), quella che, secondo i documenti storici poi emersi, portò le autorità statunitensi a liberare ben prima del tempo il boss dalle carceri americane e farlo rientrare in Sicilia nell’immediato dopoguerra, a ricompensa dei servigi resi dalla mafia ai tempi dello sbarco nell’isola.
Un metodo di lavoro, basato su fatti e situazioni reali e sul coinvolgimento dei veri testimoni, come fu nel caso esemplare della lavorazione e delle riprese di Salvatore Giuliano che avrebbero stimolato le riflessioni di Sciascia (“mai la Sicilia era stata rappresentata nel cinema con così preciso realismo, con così minuziosa attenzione”). Ma non era ‘solo per avventura Sicilia”, meridione, Italia. Francesco Rosi faceva cinema ‘a futura memoria’, e un film come Citizen Rosi indica il futuro della nostra memoria.
di Sergio Di Giorgi