Chloe

L’ultimo film di Atom Egoyan si presenta come un convincente dramma familiare attraversato, soprattutto nella seconda parte, da atmosfere e dinamiche narrative tipiche del thriller; dentro a questa struttura tradizionale e ben collaudata, che non disdegna il ricorso scoperto agli stilemi del cinema di genere, il regista armeno-canadese innerva sottilmente una spietata riflessione sulle ambiguità e l’indeterminatezza dei sentimenti, sullo scarto potenzialmente incolmabile tra apparenza e verità, sui misteri e gli enigmi silenziosi nascosti sotto la superficie levigata delle cose. Protagonisti del film sono Catherine e David, una coppia di affermati professionisti di Toronto – lei ginecologa e lui professore universitario – che vive col figlio adolescente in una sofisticata abitazione fatta di fredde geometrie in stile minimalista. Lo sguardo della macchina da presa è continuamente filtrato dalle numerose pareti di vetro che separano e uniscono i personaggi, come a suggerire una trasparenza e una limpidità che di fatto sono solo apparenti: Catherine sospetta infatti che il marito la tradisca, e perciò assolda una giovane escort per metterlo alla prova. Il nome della seducente ragazza è Chloe (Amanda Seyfried), e col suo fascino inquietante ed enigmatico finirà per sconvolgere non tanto David (uno sfuggente, impenetrabile Liam Neeson) quanto la stessa Catherine, interpretata con grande sensibilità e capacità da Julian Moore. E’ infatti sul personaggio di lei che lo sguardo del regista scava e si restringe per mettere a fuoco la volontà – a tratti vacillante –  di un’indagine, sempre più pericolosa, sui lati oscuri dei sentimenti e delle pulsioni amorose. E’ un gioco azzardato quello che così si sviluppa, una ricerca rischiosa in cui l’oggetto perduto è – in principio – la verità sull’altro, fino al momento in cui ci si svela qualcosa di molto più conturbante su noi stessi.

Quanto vasta può essere la distanza che separa i corpi di un uomo e una donna sdraiati nello stesso letto? Quanta nebbia e quanto grigiore il tempo deposita su un amore col passare degli anni? La nebbia che offusca i sentimenti che legano i personaggi del film è la stessa che impedisce a Catherine uno sguardo limpido e chiaro sulle cose, che improvvisamente sembrano essere diventate indistinte e confuse. La realtà è un mosaico molto difficile da ricomporre, in cui le tessere hanno forme ambigue che troppo spesso ingannano. E, come la protagonista, anche lo spettatore rischia di cadere nelle trappole di una realtà illusoria: mentre la donna sta decifrando gli eventi che accadono, il regista interroga lo spettatore circa la sua fiducia nell’immagine, dando vita così a due tracciati paralleli – lo sguardo di Catherine e quello spettatoriale – che si muovono (dando per scontate molte cose) in uno spazio dove niente è come sembra.

Nel discorso di Egoyan, che prende forma in immagini luminose, pulite ed eleganti, vengono indagati soprattutto il potere ambiguo della sensualità e della sessualità e il mistero mai risolvibile dell’incomunicabilità. Chloe sembra insomma suggerire che ciò che meglio crediamo di conoscere – la persona che si ama, noi stessi – è forse ciò che conosciamo meno, e che proprio nell’apparente, quotidiana vicinanza tra due persone spesso s’insinuano delle insondabili distanze.


di Arianna Pagliara
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