Chi segna vince
La recensione di Chi segna vince, di Taika Waititi, a cura di Andrea Bosco.

Quella di Taika Waititi è una figura paradigmatica dello scenario cinematografico anglosassone di oggi, un fenomeno periferico, che dalla natia Nuova Zelanda assurge sin dagli esordi a presenza costante del Sundance, esplode come regista di culto con What We Do in the Shadows, passa al circuito maggiore legandosi al Marvel Cinematic Universe e si afferma internazionalmente, con tanto di benedizione dell’Academy, con Jojo Rabbit: un personaggio che, insomma, aderisce perfettamente al paradigma della produzione comica hollywoodiana contemporanea, dissacrante ma rassicurante, sbarazzino ma allineato, birichino ma moraleggiante, attento a non turbare mai la sensibilità di un pubblico mainstream sempre più suscettibile.
C’è chi si è inopportunamente sbilanciato a riconoscerlo come l’epigono moderno di Mel Brooks, quando in verità il cineasta di Wellington può dirsi l’equivalente per il grande schermo di Michael Jackson, una personalità clownesca artefice di un cinema ad altezza di bambino, alle prese con tematiche adulte ma con la naïveté di chi non è mai cresciuto davvero: Chi segna vince segue questo modello recuperando uno degli spunti più tradizionali, se non addirittura abusati, del genere sportivo, quello del percorso di redenzione di un professionista, scivolato dalle stelle alle stalle, grazie al contatto con una realtà a lui totalmente estranea, scalcinata e, sulla carta, svilente, un topos che annovera decine di esempi, da Che botte se incontri gli “Orsi” a Stoffa da campioni, da Ragazze vincenti al recente remake USA dello spagnolo Non ci resta che vincere, con la significativa differenza che, anche a fronte di predecessori non esattamente virtuosi, la declinazione offerta da Waititi non offre mai nulla di memorabile, non una gag, non un dialogo, non una singola intuizione che faccia uscire il film dai binari dello stravisto, e tutto questo in virtù di quel clima pavido e guardingo che ha sostanzialmente nullificato la commedia d’oltreoceano da un abbondante decennio a questa parte.
Dal coach “in esilio” di un visibilmente svogliato Michael Fassbender ai maldestrissimi giocatori della nazionale di calcio sottoposti al suo allenamento, passando per la candida e sempliciotta popolazione locale, le caratterizzazioni sono generiche e abbozzate, qualsiasi spunto umoristico, a partire dallo scontro fra culture – ingrediente fondamentale per storie di questo tipo – è ridotto a zero per il timore di risultare offensivi, il ritmo, nonostante una durata che supera a malapena l’ora e mezza, annaspa già prima di arrivare a metà: ogni cosa è stemperata, ripulita e disinnescata a beneficio di un vago fine edificante, idealmente riassunto dall’epilogo che ritrae gli autentici protagonisti delle vicende (e che spinge a rivedere il di gran lunga superiore documentario Next Goal Wins, di cui questa operazione è di fatto la riproposizione finzionale)
Si è menzionato in apertura l’indimenticato autore di Frankenstein Junior, insignito giusto poco fa del premio Oscar alla carriera, uno dei maestri dell’umorismo audiovisivo del secondo Novecento, che sosteneva che “il buon gusto è il nemico della commedia”: forse è giunto il momento di chiedersi in che cosa si sia evoluto questo “buon gusto” negli Stati Uniti del 2024, ma soprattutto di rendersi conto che i nemici di cui parlava Mel Brooks sono proprio gli uomini di spettacolo come Waititi.

di Andrea Bosco