Challengers

La recensione di Challengers, di Luca Guadagnino, a cura di Emanuele Di Nicola.

Ci sono due tennisti duellanti che rinnovano una sfida potenzialmente infinita. C’è un’ex tennista, ora allenatrice, moglie di uno di loro e dominatrice di entrambi. C’è un triangolo che si consuma sul campo da tennis e in camera da letto. Il nuovo film di Luca Guadagnino, Challengers, muove un passo avanti nella costruzione della sua estetica e sferra una spallata al cinema di oggi, alla medietà narcotica, ai recinti e steccati in cui si vuole costringerlo. Doveva aprire il Festival di Venezia, saltò per lo sciopero di Hollywood, poteva dire la sua in sede di premiazione. Arriva in sala, finalmente, il 24 aprile.

Il tennis non è mai stato così erotico: Guadagnino prende lo sport più anti-spettacolare e lo rende cinematografico, per la prima volta, sotto forma di triangolo scaleno. Da una parte Art e Patrick, nei corpi di Mike Faist e Josh O’Connor, giovani talenti e amici, dall’altra Tashi con Zendaya sul trono della mistress. Si dispiega un ménage à trois avanti e indietro nel tempo, una partita reiterata tra i quasi amici, ma è sempre Zendaya a dare le carte: prima campioncina, poi infortunata, quindi rancorosa come in un film di Robert Aldrich. Proprio nel ruolo dell’allenatrice-dominatrice Tashi postula il primato del tennis sull’amore e coltiva il gioco perfetto, ne resta ossessionata, vuole arrivare al tennis totale per la bellezza del gesto. Di una lunga partita sofferta dice: “Si è giocato a tennis per quindici secondi”.

Il regista stavolta guarda soprattutto a Bernardo Bertolucci: graficamente il punto di riferimento sono i threesome di The Dreamers, ma il dialogo vero è con Il tè nel deserto, dove non c’è più l’Africa ma il campo da tennis a fare da terreno di battaglia esistenziale. È questo lo spazio in cui, forse, il grande tennis e il vero amore possono coincidere sulla rotta dell’ultima pallina.

Guadagnino riscrive in modo sfacciato gli stereotipi del gay movie (la prima masturbazione, la sauna), sdoppia i suoi Tadzio che da Chalamet diventano il duo Faist-O’Connor, nasconde la disperazione dietro la bellezza, coi corpi scolpiti che celano l’abisso. Il film reinventa totalmente il tennis al cinema scoprendo nuovi punti di visione, avvolge le palline nella musica elettronica di Trent Reznor e Atticus Ross, scrive un grande personaggio femminile. La macchina da presa scivola sulla superficie dei corpi e rende l’eros un thriller, alzando il livello dello scontro quando esplode il fuoco dell’amore. Come in Tabù – Gohatto di Nagisa Oshima, i samurai che si scontrano a colpi di spada e il maestro sussurra: “Sono davvero innamorati”. Così anche Zendaya trova infine la Bellezza, il gioco definitivo. In mezzo ci sono lingue, gambe, sudore, vento interiore e fughe notturne, l’immagine pop sfiora il soft porn.

Postilla: il tennis nel cinema di finzione è stato ampiamento rappresentato, c’è una lunga filmografia, che va dalla partita mimata nel finale di Blow-Up alla pallina in bilico di Match Point che condensa le sliding doors della narrativa e della vita. Nel presente è servito per tratteggiare personaggi notevoli, come in Borg vs McEnroe, o per veicolare messaggi espliciti come ne La battaglia dei sessi. Nelle tristi rom-com da piattaforma viene spesso usato come scena di raccordo per avvicinare i protagonisti appena conosciuti. Il tennis non è dunque anti-spettacolare in sé, ma lo è stata finora la sua rappresentazione, col solo documentario che ha sfiorato vette olimpiche come L’impero della perfezione. Insomma, di rado il tennis è stato considerato in sé e per sé, ma piuttosto piegato all’esigenza narrativa di turno. Challengers per primo lo inscena in modo erotico e quindi eretico. Guadagnino sta da un’altra parte: prendere o lasciare.


di Emanuele Di Nicola
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