Cha Cha Cha
Regista dalla filmografia non ricchissima ma essenziale nella sua pregnanza (si definisce “pigro” per sua stessa ammissione), Marco Risi ha sempre privilegiato un cinema capace di indagare nelle pieghe più nascoste della società, mettendone a nudo le storture più profonde e denunciandone i mali congeniti senza però mai scivolare nella retorica d’accatto che affligge la produzione di molti colleghi animati dalla sua stessa tensione all’impegno ma non dotati di analogo senso della misura. Il tutto sempre all’insegna di un’indignazione civile tipica di chi non vuole rassegnarsi al degrado e al malcostume ma cerca di combatterne il dilagare onnivoro col semplice racconto di storie esemplari.
Cinque anni fa lo avevamo lasciato con Fortàpasc, racconto-denuncia dell’infiltrazione inarrestabile della camorra in ogni anfratto sociale contaminabile fatto attraverso la rievocazione della morte annunciata di un giovane praticante de “Il Mattino” di Napoli troppo assetato di verità per poter sperare in un futuro possibile. Oggi Risi ritorna con l’ambizione di raccontare un pezzo dell’Italia di oggi affidandosi a un film di genere – il noir – mai affrontato prima e scelto forse proprio perché quanto mai adatto e funzionale a descrivere lo stato delle cose in atto.
Al centro della vicenda c’è un detective privato che, assunto da una bella ex attrice straniera ora compagna di un avvocato potentissimo e con le mani in pasta ovunque (ma sua amante in passato), ha il compito di vigilare sui movimenti del figlio sedicenne della donna, il quale sembra refrattario a ogni forma di autorità e solo in grado di sperperare le ingenti somme di denaro che la madre e (forse) anche il patrigno gli permettono di avere in tasca.
Ma quando una sera il ragazzo muore a seguito di un incidente d’auto che si rivela subito essere fin troppo sospetto per non sembrare una sorta di esecuzione camuffata da tragedia, tutto prende una piega diversa e l’indagine del protagonista finisce col portare alla luce una serie di verità nascoste che quasi tutti i loschi personaggi coinvolti nella vicenda preferirebbero rimanessero tali e non venissero svelate.
Scegliendo di adottare lo schema tipico del noir americano degli anni ’40, Risi ne richiama in vita tutti gli stereotipi ormai cristallizzati da decenni di riproposizioni forse anche troppo meccaniche che ne hanno però fatto il marchio di fabbrica rendendo riconoscibile come appartenenti alla categoria tutte le storie raccontate secondo i canoni imposti dalla tradizione. Siccome questo schema è nato e si è consolidato nel mondo americano e risulta credibile soltanto se applicato a vicende ambientate in contesti geografici e sociali pertinenti, i rischi contenuti in ogni coraggioso tentativo di adattamento ad altre latitudini sono sempre fin troppo grossi se rapportati alla possibilità di riuscita finale.
Ed è proprio questo che si verifica almeno in parte in Cha Cha Cha. Nella sceneggiatura scritta a sei mani con Andrea Purgatori e James Carrington Risi sceglie infatti di adottare in forma integrale praticamente tutti gli stereotipi cari al genere: c’è infatti il classico detective privato che, come da copione, è un ex sbirro in stile Serpico emarginato dalla Mobile per aver denunciato il malaffare e la corruzione che vi regnavano sovrani finendo col fare la figura dell’infame agli occhi dei colleghi con le mani in pasta. Un duro e puro dal cuore buono che le prende e le dà quando si tratta di menare le mani, sa usare la pistola quando gli altri cercano di riempirlo di piombo, ma è umano e fragile in mezzo a una selva di pescecani assetati da pulsioni variamente ignobili ed è ovviamente inviso agli ex commilitoni della Mobile che lo controllano perché lo sanno sgugio di razza capace di arrivare col suo fiuto là dove gli altri investigatori tardano ad arrivare.
C’è poi la più classica delle dark lady bionda come devono essere tutte le maliarde maschicide e con un passato torbido non certo illuminato dal fosco presente che la vede compagna non troppo entusiasta di un uomo de panza che copre intrallazzi di ogni tipo dietro una facciata perbenista da avvocato di successo, ma che non esita a farsi strada negli affari lastricando il proprio passaggio di cadaveri più o meno eccellenti. Nella migliore tradizione chandleriana, la bionda (qui attualizzata in versione contemporanea di ex ragazza dell’est Europa arrivata in Paradiso attraverso le scorciatoie che tutti possono immaginare) è ovviamente stata una ex del detective per il quale forse nutre ancora qualcosa a metà tra l’affetto che si deve a un amante del passato e il desiderio di protezione che si richiede a un fratello assennato.
Ma ovviamente non mancano nemmeno i poliziotti corrotti e violenti (tra i quali domina michelangiolesco l’ambiguo commissario Torre che sono in pochi a capire da che parte realmente stia, fino alla rivelazione shock del finale che non è bene anticipare) che ovviamente vedono come fumo negli occhi il bel detective privato che in passato ha avuto la forza di denunciarli e che arriva sempre un attimo prima di loro sia sul luogo del delitto che alle deduzioni logiche essenziali per risolvere il caso spinoso su cui più o meno tutti sembra stiano indagando.
Perché il noir in stile anni ’40 funzioni davvero ci vuole però una metropoli fagocitante e torbida capace di incubare il Male in ogni sua forma spargendone i germi come un contagio in tutte le direzioni della sua sterminata estensione nello spazio. Risi sceglie di opporre al modello nordamericano caro all’hard-boiled in stile Chandler o Spillane una sua Roma rivisitata e corretta alla bisogna. A fare da sfondo all’imperversare di faccendieri, spioni, violenti, corrotti e traditori di tutti c’è una città notturna e tenebrosa quasi sempre inquadrata dall’alto come se il reticolo di luci e fosforescenze che ne illuminano la notte fisica e morale volesse dare la cifra di un palcoscenico in cui può andare in scena solo ciò che non può essere esposto alla luce del giorno perché impresentabile nel suo gravitare costantemente aldilà del lecito.
Se da una parte questa scelta radicale di genere può forse essere una gabbia un po’ angusta per rappresentare una storia criminale tutta italiana e così intimamente legata al momento che stiamo vivendo, dall’altra va detto che il film di Risi riesce nell’impresa di non far sembrare forzato il processo di adattamento di uno schema allogeno a una realtà del tutto “altra”. Sopratutto perché le figure e i figuri che popolano la sceneggiatura sono personaggi capaci di far convivere in se stessi l’ansia di rappresentare l’hic et nunc del presente ma anche la rassegnazione a ergersi a icone perenni di qualcosa che esiste da sempre (il Male e il Bene nella recita del loro opporsi costante) e che non smetterà mai di essere rappresentabile attraverso il ricorso a funzioni da elevare a simboli.
Cha Cha Cha riesce quindi nell’impresa non facile di raccontare con l’approccio del noir classico questa Italietta di collusi e corrotti che intrallazzano nell’ombra mentre la gente per bene si illude che la loro esistenza sia pura finzione visibile solo al cinema. Se gli si vuole trovare qualcosa di debole lo si deve andare a cercare nel titolo e forse in parte nella scelta del cast. Scelto da Risi dopo una serie di sofferti ripensamenti per rappresentare la leggerezza amorale di un popolo – quello italiano – che pensa di poter risolvere tutte le sue angosce col rifugio nella panacea del frivolo, il parzialmente fuorviante Cha Cha Cha può forse esser recuperato nella sua valenza simbolica se lo si pensa legato al ritmo stesso della danza sudamericana, il cui movimento impostato su un passo avanti e uno indietro vuol forse riferirsi al misero balbettio socio-economico che l’Italia degli ultimi anni ha mostrato di saper mettere in mostra, ovvero un passetto verso il baratro subito corretto da una brusca retromarcia piena di false speranze foriere di nuove illusioni.
Quanto al cast, i villain sono davvero perfetti nella loro caratterizzazione, con Claudio Amendola – che Risi ritrova a venticinque anni di distanza da Soldati – 365 all’alba – sornione e ambiguo fino alla fine nei panni del poliziotto corrotto capace però di un guizzo di decenza che lo affranca dall’inferno, e il regista e attore savonese Pino Delbono feroce nella sua maschera del male dell’avvocato malavitoso e ancora una volta abbonato a un ruolo da cattivo integrale senza opzioni di riscatto.
Meno bene invece la scelta del protagonista e della femme fatale. Luca Argentero, che Risi ha cercato di “sporcare” tumefacendogli con lodevole insistenza i bellissimi tratti da ragazzo “bene” e cercando di degradarlo il più possibile fino a fargli interpretare una scena di nudo integrale in cui tre energumeni lo riempiono di botte, è davvero troppo apollineo nel suo nitore da statua greca per dare sufficiente credibilità al personaggio stropicciato della versione italiana di Marlowe de noiantri. Sopratutto perché gli si chiedeva di centrare l’arduo obiettivo di non far sembrare posticcio un ruolo, quello del private eye, che nella realtà nostrana esiste solo per fare foto a mariti fedifraghi e non ha il margine di manovra e la dimensione che il mondo americano gli ha concesso da sempre. Quanto alla Herzigova, pur cercando di superare i propri evidenti limiti per mettere al servizio del personaggio interpretato una bellezza algida che sta però iniziando a mostrare i segni del tempo in un rinsecchirsi di forme che la rendono meno desiderabile, forse sarebbe il caso di rendersi conto che il mestiere di modella e quello di attrice non hanno nulla a che vedere.
Cha Cha Cha è un film affollato di personaggi che sono ex di qualcosa ma che contiene in se stesso alcuni tributi importanti che è bene non passino inosservati. Tutti i personaggi sono stati infatti qualcosa (un ex poliziotto il detective protagonista, un ex attrice la donna che lo ingaggia dopo esserne stata l’amante e quindi anche in questo caso un’ex, un ex avvocato l’attuale compagno di lei, un ex bravo ragazzo il figlio trasformatosi in ricattatore del patrigno, un ex padre il padre biologico del ragazzo stesso ora relegato in una casa isolata sul mare a meditare sulla propria inadeguatezza, ex tutori della legge gli uomini della “squadra” del commissario Torre ora corrotti e collusi, ex amico e collega del protagonista Torre stesso e via dicendo), come se si volesse usare questo passato individuale diverso dal presente per ricordare che anche l’Italia è stata qualcosa di diverso nel suo passato e che dovrebbe cominciare a ricordarsene per non diventare un’ex di se stessa.
Il film è dedicato a diverso titolo a due importanti figure del cinema italiano. Il primo tributo, più evidente e segnalato all’inizio del film, è quello al direttore della fotografia Marco Onorato, scomparso pochi mesi dopo aver finito il proprio lavoro sulla pellicola (e dopo aver caratterizzato col suo tocco tutti i film di Matteo Garrone). Il secondo è invece meno esplicito ed è contenuto nel nome del personaggio interpretato da Argentero, il cui cognome Corso è un tributo a Corso Salani, attore e regista fiorentino prematuramente scomparso nel 2010 a soli 48 anni e interprete de Il muro di gomma, uno dei film più riusciti di Risi sulla vergogna del caso Ustica, e qui citato non solo per affetto (con Risi interpretò anche Nel continente nero) ma anche per la tensione alla denuncia che è stata la cifra distintiva del suo cinema documentaristico.
Trama
Indagando sulla misteriosa morte del figlio di una ex attrice ora compagna di un avvocato colluso e potentissimo, un investigatore privato con passato da poliziotto porta alla luce una serie di verità nascoste che a troppi farebbe comodo rimanessero tali.
di Redazione