Cento domeniche
La recensione di Cento domeniche, di Antonio Albanese, a cura di Francesco Di Brigida.
Quanto tempo ci vuole a rovinarsi la vita? Quanto conta la disattenzione per una firma rispetto alla meticolosità di un controllo? E dove arriva l’orgoglio ferito di un uomo e di un padre che perde tutto a fronte del sospirato matrimonio dell’unica figlia? Antonio Albanese mette in scena una delle rovinose ingenuità del nostro tempo intrecciandola con il pressapochismo profittatorio di un sistema bancario orientato sempre più pericolosamente verso gestioni scellerate del credito.
Antonio (Antonio Albanese) è un tornitore in pensione, ma nel suo cantiere continua a lavorare, quasi gratis, per arrotondare. Sua figlia sta per sposarsi, così poter sostenere per intero le spese del grande giorno è per lui un onore al quale non vuole rinunciare. La firma frettolosa su nuove documentazioni bancarie per farsi concedere un prestito diventa l’inizio di una via crucis fatta di perdite economiche inspiegabili quanto umilianti. Albanese ci ha abituati ad un cinema agrodolce, via via sempre più distante dalla commedia di maschere e gag dalla quale proviene. Il suo Cento domeniche è un dramma severo con i truffati e con i truffatori. Segue il precipizio economico e consequenzialmente sociale di un brav’uomo che si è affidato ciecamente alla sua banca.
Con questo presupposto il regista, e sceneggiatore insieme a Piero Guerrera, indaga con fermezza e sobrietà sugli interrogativi di cui sopra. Lo fa con la premurosa tenerezza di un padre verso sua figlia e non si concede humor se non nelle schermaglie affettuose tra gli operai colleghi del protagonista. La fabbrica è nel passato del regista, che iniziò a lavorare proprio come operaio ben prima del cabaret che lo portò poi a esplodere dal Teatro Zelig di Milano al televisivo Mai Dire Gol. Nella sua filmografia non ha mai dimenticato quell’humus portandolo in qualche modo sempre con sé anche nella sua filmografia di puro attore. Ora il dramma che ci porta è la fotografia perfettamente a fuoco di un’epoca fatta di monete d’oro sepolte nel Campo dei Miracoli, di risparmiatori distratti dalla loro vita frenetica e rintanati nella fiducia sotto l’insegna di una banca secolare, ma mossi come burattini da gatti e volpi dietro un pc fatto di numeri impenetrabili e papelli da firmare.
Le speranze legate indissolubilmente alla materialità della vita deformano le relazioni e mettono a dura prova qualsiasi resilienza. Il capitalismo capace di nutrire e affamare ogni sentimento, che ci rende lupi o agnelli a seconda del momento, ma soprattutto il suo rigore formale fatto di soffici flashback su un pastiche solare, fanno del film un piccolo pamphlet sulla crisi economica italiana, offrendo allo stesso tempo un prodotto dal respiro potenzialmente internazionale. Albanese s’immerge totalmente nel dramma levando di torno il riso che lo caratterizza da anni ma mantenendo l’umanità essenziale dell’artista che è sempre stato.
di Francesco Di Brigida