Cattiverie a domicilio

La recensione di Cattiverie a domicilio, di Thea Sharrock, a cura di Guido Reverdito.

Nel 1922 l’intera Inghilterra si appassionò a un bizzarro fatto di cronaca accaduto a Littlehampton, piccolo villaggio del Sussex, nel sud del paese. Edith Swan, penultima dei tredici figli di un idraulico e una lavandaia, beghina repressa come molte donne dell’epoca, iniziò a ricevere lettere anonime colme di insulti irripetibili a sfondo prevalentemente sessuale. A sua detta a inviarle era Rose Gooding, giovane vicina di casa dal carattere esuberante e vivace, che a seguito di questa accusa finì in carcere per poi essere liberata e riabilitata agli occhi dell’opinione pubblica quando la verità venne a galla e tutto il paese ebbe modo di scoprire chi fosse la vera autrice di quelle lettere al veleno (e cioè le Little wicked Letters del titolo originale inglese).

Diretto dalla londinese Thea Sharrock (che al suo attivo ha il gradevole Io prima di te e la serie targata Disney+ L’unico e inseparabile Ivan) e campione di incassi nel Regno Unito, Cattiverie a domicilio è la ricostruzione parzialmente fedele di questo singolare episodio di cronaca locale. Fedele solo in parte perché il personaggio della giovane e fumantina Rosa nella realtà proveniva da una cittadina nei pressi di Littlehampton, mentre nel film è un’irlandese doc nel cui carattere focoso non manca nemmeno uno degli stereotipi tipici cui il cinema ci ha abituati quando si tratta di disegnare un carattere dell’isola di smeraldo.

Una rivisitazione di un fatto realmente av venuto fatta in chiave di commedia sboccata e tagliente con la tipica eleganza formale con cui il cinema britannico riesce sempre a far sembrare leggeri anche temi grevi. Che, nel caso presente, sono un mix complesso che va dalla calunnia alimentata dall’invidia alla condizione femminile in una società dominata dagli uomini, dalla repressione sociale alle ansie di liberazione interiore, per finire con il difficile rapporto tra cittadino/suddito e le istituzioni pubbliche.

Ma se questo cocktail non agevole da gestire sia in chiave di scrittura che di regia alla fine non sembra una maionese impazzita ma un puzzle in cui tutti i pezzi alla fine trovano la propria debita collocazione, questo lo si deve soprattutto alle attrici scelte per interpretare i ruoli delle due amiche/nemiche coinvolte nella brutta storia di lettere e accuse. Da una parte c’è il premio Oscar (per La favorita) Olivia Colman, monumento del cinema britannico che qui regala l’ennesima prova di magistero attorale che sarebbe opportuno gustare nell’originale non doppiato per godersi appieno la sua trasformazione verbale da vittima repressa a macchina spara parolacce fuori controllo. Al suo fianco, nei panni dell’esuberante Rose, riesce a non sfigurare Jessie Buckley, giovane attrice irlandese già vista in molte serie TV (tra le tante Chernobyl e Fargo) ma soprattutto candidata all’Oscar per La figlia oscura, film in cui guarda caso interpretava il ruolo do Olivia Colman da giovane.

Questa contrapposizione tra caratteri femminili molto forti (cui va aggiunto quello della poliziotta Gladys Moss, che all’epoca risolse il mistero delle lettere anonime e che fu anche la prima donna a entrare in Polizia nel Sussex, nonché la prima a diventare motociclista) è in parte il dazio che il film paga alla tendenza del momento di costruire intere sceneggiature su storie di donne capaci di ribaltare le consuetudini sociali e imporre la propria personalità su tutto e tutti. Un inchinarsi alle mode culturali dei giorni nostri che però non offusca un altro aspetto fondamentale dell’intera operazione. E cioè usare gli strumenti della commedia di costume e del ritratto caratteriale (riassunti nello scontro tra la repressa suddita inglese e la sfrontata irlandese libera da pregiudizi) per richiamare l’attenzione dello spettatore sul lacerante contrasto che da secoli divide le due isole. Mai tanto distanti e contrapposte come in questi anni di rinnovato astio fomentato dalla Brexit.


di Guido Reverdito
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