Carol

Patricia Highsmith — giallista di livello superiore con cui si sono cimentati tra gli altri autori del calibro di Hitchcock, Chabrol, Clement e Wenders — scrisse di getto The Price of Salt in una sola notte del 1948, dopo aver trascorso una giornata di lavoro in un grande magazzino e aver fatto la conoscenza di una misteriosa e affascinante cliente che fece da detonatore per creare la storia che fa da perno al libro. Volume che venne però pubblicato soltanto quattro anni dopo.

Siccome il tema trattato (un’irrefrenabile attrazione omosessuale tra due donne divise dall’anagrafe, dal censo e dallo stato civile) era alquanto scabroso per l’America perbenista di quegli anni, la grande scrittrice americana decise di celarsi dietro lo pseudonimo di Claire Morgan. Ma quando il libro divenne una specie di inatteso caso letterario vendendo milioni di copie, la sua autrice non poté evitare di uscire allo scoperto riconoscendone la paternità e incrementando così in maniera esponenziale il favore dei lettori.

Di questo piccolo capolavoro di scavo psicologico nella psiche femminile di due anime in pena e in lotta contro le feroci convenzioni sociali e il clima repressivo che dominava l’America di quegli anni il regista californiano Todd Haynes ha firmato con Carol una trasposizione algida ma stilisticamente impeccabile che aggiunge un importante tassello a quello che è ormai da tempo riconosciuto come uno degli elementi tematici portanti del suo cinema.

E cioè lo studio analitico di forti caratteri femminili inquadrati in contesti di aperto contrasto con la società con cui sono chiamati a fare a pugni per affermare la propria ansia di emancipazione dalle rigide regole imposte dall’universo maschile ma soprattutto per lottare contro le disuguaglianze e le iniquità che fanno da ostacolo permanente al conseguimento di una piena liberazione sul piano individuale e collettivo.

Carol rientra a pieno titolo in questo felice àmbito di introspezione psicologica col quale Haynes ha mostrato di essere particolarmente a proprio agio sin dai tempi degli esordi (basti pensare a Safe e al bellissimo Lontano dal Paradiso) arrivando a mettere al centro della miniserie TV Mildred Pierce realizzata nel 2011 e da molti considerata il suo lavoro più maturo e consapevole la storia di un’altra donna dal carattere fortissimo che nella California del 1931 cerca di rifarsi una vita dopo essere stata abbandonata dal marito.

Anche la Carol dell’omonimo film è una creatura a suo modo ferita nell’intimo che cerca di rifarsi una vita dopo aver capito di aver imboccato la strada sbagliata andandosi a ingolfare in un matrimonio che le ha regalato una bella bambina ma anche la ferma consapevolezza di essere ciò che non vuole e soprattutto di identificare il fuoco della passione non tanto nel tradizionale oggetto del desiderio virile quanto piuttosto nelle più morbide e rassicuranti forme femminili.

Spaesata e confusa è anche Therese Belivet, una ventenne squattrinata che invece non sa né chi sia né cosa voglia salvo il coltivare il sogno di diventare fotografa ma che nel frattempo annacqua il suo male di vivere dietro il banco di un grande magazzino di Manhattan. Ed è proprio lì che la ragazza conosce per caso la sofisticata e più matura Carol quando quest’ultima — smarrita nei propri pensieri e angosciata da un matrimonio alla deriva in cui un marito-padrone la tiranneggia negandole la separazione che lei tanto vorrebbe — si aggira tra i banchi alla ricerca di un regalo di Natale per la figlioletta.

Grazie alla complicità di un paio di guanti dimenticati (volutamente?) da Carol sul banco e fatti in seguito recapitare da Therese a domicilio, tra le due donne nasce subito una celeste corrispondenza di amorosi sensi che ben presto si trasforma in relazione pericolosa. A tal punto che Carol, decisa ad andare dove la porta il cuore, coinvolge la sua nuova amica in un viaggio iniziatico in macchina attraverso il paese la cui meta non è sulla carta geografica ma nel cuore delle due donne che lo intraprendono facendo sì che lungo la strada scoprano di poter usare la proibitissima parola «amore» per definire il sentimento che ormai le lega.

Presentato in concorso all’ultima edizione del festival di Cannes e interpretato da due attrici ciascuna delle quali probabilmente degna rappresentante del meglio della propria generazione (e non a caso a Rooney Mara andò il premio come miglior attrice femminile ex aequo con l’Emmanuelle Bercot di Mon roi), Carol ha il pregio non indifferente di saper coniugare gli elementi tipici del melodramma dell’epoca che mette in scena a quelli del film sartoriale nel quale un budget risicato non ha impedito di ricostruire con sorprendente perizia filologica gli ambienti e le atmosfere dell’America dei primi anni ’50.

Ricostruzione che Haynes usa con intelligenza e acume registico evitando che questo aspetto parafilmico possa condizionare in maniera eccessiva l’intera operazione, ma attribuendogli quasi il ruolo di personaggio in più destinato a interagire con le due protagoniste e trasformandone quindi la potenziale passività ornamentale in componente attiva chiamata a interpretare un ruolo di primo piano nel cuore della vicenda.

Haynes non ha mai nascosto la sua passione per il cinema di Douglas Sirk. E non dev’essere quindi una sorpresa scoprire che Carol è di fatto un tributo a quel classico tipo di melodramma i cui personaggi soffrono ingabbiati nelle gerarchie sociali che li asfissiano senza che però allo spettatore venga mai data la possibilità di penetrare nel loro intimo per poterne comprendere i motivi dell’agire e riuscire così eventualmente a identificarsi con loro.

Un tributo quello di Haynes con però una sostanziale differenza proprio nella scelta del punto di vista: se i personaggi dei melodrammi di Sirk imponevano una sorta di distanza tra spettatore e ragioni del proprio agire, sia Carol che Therese offrono invece al pubblico l’opportunità di comprendere appieno quali siano le spinte interiori che le portano ad avvicinarsi pericolosamente l’una all’altra lasciando che le ragioni del cuore abbiano la meglio sulle convenienze sociali dell’epoca.

Triste però vedere come la distribuzione abbia cercato di sfruttare la presunta scabrosità del tema trattato come facile traino pubblicitario per attirare la gente in sala: quanti dovessero pensare di assistere a focosi momenti di amore saffico illustrato nella cruda evidenza dell’atto si mettano il cuore in pace. La fisicità dei rapporti tra le due donne è l’ultima delle preoccupazioni di una sceneggiatura tutta tesa invece a suggerire per sottrazione più che a mostrare con ostentazione.

Lo spirito di Sirk aleggia protettivo per tutta la pellicola evitando cadute di stile e lasciando che il melodramma dai contorni solo suppostamente pruriginosi si trasformi in quello che il suo autore voleva che l’intera operazione fosse. E cioè una storia d’amore (impossibile) resa tale dalla forza interiore di due donne decise a non piegarsi al ricatto delle consuetudini borghesi pur di imporre le ragioni del cuore.

Trama

Nell’America perbenista dei primi anni ’50 l’amore proibito tra due donne divise dall’anagrafe, dal censo e dallo stato civile ne sconvolge l’equilibrio interiore costringendole ad affrontare le dure convenzioni sociali della società maschilista dell’epoca per regalare uno spazio al proprio sogno d’amore.


di Redazione
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