Festival di Cannes 2023 – Le nostre recensioni

Le recensioni degli inviati di CineCriticaWeb dalla 76ª edizione del Festival di Cannes.

YOUTH (SPRING)
COMPÉTITION
di Wang Bing
Durata: 213′
Anno: 2023

Produzione: Cina

A partire dalle sostanziali assemblee sindacali per tentare di ottenere qualche soldo in più e qualche ora di lavoro in meno in un Paese dove non esistono sindacati, sembra quasi più un film di Frederick Wiseman che di Wang Bing il nuovo e fluviale Youth (Spring), che con i suoi duecentotredici minuti (in realtà solo i primi di una trilogia che dovrebbe attestarsi più o meno intorno alle nove ore) giunge come primo documentario di sempre presentato nel concorso principale di un Festival di Cannes. Un lavoro frutto di cinque anni di riprese, con cui il grande regista cinese torna nelle industrie tessili della più squallida periferia di Shanghai che già erano state luogo del suo Bitter Money, questa volta non più per concentrarsi sui rapporti straziati e violenti fra una manciata di lavoratori, ma per ragionare sull’intera classe operaia e su un’intera generazione di giovani cinesi che, per qualche giorno o per qualche mese, continuano ad alternarsi ai macchinari e nei dormitori. Senza più la possibilità tipicamente binghiana di affezionarsi alle singole persone e attraverso i loro lacerti di vita rendere lirica la drammaturgia del reale, ma esattamente al contrario mostrando la loro perfetta intercambiabilità, come pedine di un sistema glaciale e spietato in cui non esiste più l’individuo, ma solo il giovane da sfruttare con un lavoro a cottimo, da fargli portare a termine con ritmi ai limiti dell’umano per pochi centesimi a pezzo, e poi da sostituire con un altro numero di matricola. Una condizione di semi-schiavitù della quale, a dispetto della vulgata comune occidentale più che un filo razzista che vorrebbe i lavoratori cinesi più o meno alla stregua di automi, tutti i giovanissimi intercettati dall’occhio meccanico di Wang Bing sono perfettamente consapevoli, ma la mancanza di alternative e la necessità di arrivare a fine mese non consente loro di fare altro che accettare i contratti capestro e anzi iniziare a fare la corsa agli straordinari. Eppure trovano lo stesso il modo di vivere la loro vita e i loro diciotto-vent’anni, gli operai di Youth (Spring). Adolescenti che vanno e che vengono nel costante ricambio di forza lavoro, ma soprattutto che sognano, ridono, (si) corteggiano, litigano, scherzano, si innamorano, fanno progetti di vita, si lanciano torte in faccia, aspettano bambini, non smettono mai di sperare.

Basterebbero i due momenti in cui qualcuno dei ragazzi “pedinati” rompe la quarta parete e si rivolge direttamente a Wang Bing invitandolo a seguirlo dentro casa o in strada, aprendo definitivamente le porte della sua fiducia nei confronti del regista. Come a considerarlo membro di una vera e propria famiglia, e poco importa che si tratti di una famiglia temporanea e mutevole, destinata a cambiare costantemente i suoi individui, come inevitabilmente si configura la classe operaia: è una fetta di esistenza, è il presente, è la quotidianità da vivere. Attraverso un mosaico di volti e momenti, fra l’estenuante meccanicità chapliniana del lavoro a ritmo di musica, le analoghe difficoltà economiche (e magari l’impossibilità di sposarsi) che tutti i protagonisti devono affrontare, i sorrisi e le incomprensioni del loro (poco) tempo libero, i cellulari con cui comunicare con gli amici rimasti a casa e la sostanziale parità dei sessi all’interno del gruppo di lavoratori (per quanto siano molto più spesso le donne a distinguersi per produttività), Wang Bing lavora sul luogo e sul (lungo) tempo, sulla ripetizione dei gesti e sulla mappatura di persone sempre differenti eppure sempre uguali agli occhi dell’impresa, per trovare una sintesi del proletariato (compresa la sua tendenza a dividersi in ulteriori sotto-classi sociali, perché il sistema funziona sempre nello stesso modo) e dipingere un’altra preziosa sezione del suo ormai ventennale affresco della Cina marginale che proprio nelle peggiori zone d’ombra trova la brillantezza dell’umano. Youth (Spring) sono giovani ragazzi sul confine dell’età adulta, magari ancora timidi nell’approccio all’altro sesso e ancora adolescenti nell’ostentare eccitati il nuovo iPhone, eppure forzatamente cresciuti e inappagati nel loro bisogno disperato di guadagnarsi da vivere con un lavoro straniante, meccanico e sottopagato. Fatto di forsennati taglia e cuci, di corse per consegnare le scatole in tempo, di drammatici errori su cappucci da rifare daccapo, di interni di pile con cui foderare centinaia o forse migliaia di pantaloni. Ma anche di momenti in cui aver finito a tempo di record, e senza dire nulla mettersi ad aiutare il vicino di postazione. In una solidarietà che anche nella catena di montaggio ritrova il calore delle persone, le loro timide effusioni, la loro vitalità, le loro reali aspirazioni. Non sarà la migliore opera in carriera di Wang Bing, priva o quasi di picchi emotivi (al centro invece del magnifico e per molti versi opposto Man in Black, sempre a Cannes76 ma come Séance Spéciale, lavoro lirico e al limitare dello sperimentale, girato in un solo giorno per la durata di una sola ora, sul compositore d’Avanguardia Wang Xilin per decenni vittima delle torture e delle purghe contro gli artisti ritenuti non sufficientemente allineati al regime maoista), ma Youth (Spring) è un film corale e politicissimo, prezioso nel suo sguardo e nel suo cucire insieme frammenti di infinite vite protese a costruire la propria identità, e a non smettere mai di vivere, resistere e sorridere nemmeno nelle peggiori condizioni lavorative e salariali. Quello che conta è non rinnegare mai se stessi e la propria gioventù, le proprie aspirazioni, le proprie speranze. Per una giustizia sociale che probabilmente non arriverà mai, ma che è giusto lottare fino all’ultimo giorno per ottenere. [MARCO ROMAGNA]

MAY DECEMBER
COMPÉTITION
di Todd Haynes
Durata: 113′
Anno: 2023

Produzione: Usa

Gracie conduce una vita all’apparenza normale: un marito, le figlie, delle torte sempre in forno da vendere ai vicini. Ma la famiglia di Gracie ha radici ambigue. Lei e il suo compagno hanno preso vita sulle pagine dei tabloid e nelle aule di tribunale: lei, donna già sposata e con prole, ha sedotto un tredicenne nel retrobottega di un negozio di animali. L’unione dura ancora, ma a che costo? La loro storia – più che la loro intima relazione – sta per diventare un film e l’attrice che la deve
impersonare – Elizabeth Berry, in cerca di un riconoscimento personale più che di una consacrazione – fa intrusione nel quotidiano della coppia toccando nervi troppo a lungo sopiti. In May December Todd Haynes costruisce un racconto sentimentale con sfumature da thriller, gioca con le ambiguità e con le identità. Costruisce e decostruisce. Osserva il fragile equilibrio di un rapporto basato su un patto di fiducia impari, su una maturità affrettata e sull’impossibile desiderio di normalità. Haynes non dimentica le tanto amate atmosfere à la Sirk, scruta minuziosamente senza giudicare, distilla un’aria mélo in un contesto borghese scoperchiandone le fragilità emotive, i rimossi, i non detti, le scorie di un passato ancora feroce. Natalie Portman e Julianne Moore si sfidano in un duello di specchi: la felicità apparente, del resto, cos’è se non una messa in scena e chi meglio di un’attrice può metterla sotto scacco? [FEDERICO PEDRONI]

PERFECT DAYS
COMPÉTITION
di Wim Wenders
Durata: 123′
Anno: 2023

Produzione: Germania, Giappone

Nel cinema, come nella vita, il percorso è quello della progressiva sottrazione, nel tentativo di sfiorare l’essenziale, ed è così che a quasi 78 anni Wim Wenders, dopo aver percorso il mondo, e le infinite strade degli uomini al solo scopo di osservarle, in Perfect Days segue la storia interiore di un solo personaggio, Hirayama, senza volere spiegare e tantomeno capire, solo seguire in punta di piedi il fluire delle sue giornate in cui le ellissi sono più importanti dei fatti perché costringono lo spettatore a riempirle con la propria vita, fino a identificarsi con lui.

Non a caso ci troviamo a Tokyo, una metropoli così spersonalizzata da indurre, paradossalmente, a scivolare nell’intimità di un uomo che è arrivato a pulire i bagni pubblici perché ha commesso tanti sbagli che possiamo solo immaginare, ma che in fondo ci sembra tristemente felice, come suggerisce il lungo primo piano (con tanto di sguardo in macchina, come ad interrogarci) di fine film. In Perfect Days, Hirayama (in)segue l’essenziale ascoltando la musica in macchina su di un’antica cassetta, scambiando poche parole con il suo giovane e rumoroso collega, annaffiando le piante, leggendo libri e giocando a tris con uno sconosciuto che ogni giorno gli lascia un biglietto con la sua nuova mossa, all’interno di un bagno pubblico.

Sembrerebbe essere questa la sua relazione più stabile all’interno di uno spazio di vita che gli sta stretto, come suggeriscono le lacrime che versa incontrando prima la nipote, poi la sorella, e come pure suggerisce il formato del film, un 4:3 che da un lato sembra comprimerlo, dall’altro spingerlo verso una trascendenza per la quale, tuttavia, non sembra ancora essere pronto. [MARCO LOMBARDI]

EUREKA
CANNES PREMIÉRE
di Lisandro Alonso
Durata: 140′
Anno: 2023

Produzione: Argentina, Francia, Germania, Portogallo, Messico

Nessuno sta guardando davvero il western che passa in tv, che sembra la versione in bianco e nero del film precedente del regista argentino, Jauja. Viggo Mortensen mette un villaggio a ferro e fuoco a revolverate ma davanti allo schermo non ci sono spettatori: invece, a contemplare la tempesta di neve che riempie all’alba l’intera visuale della finestra dal casino della riserva indiana di Pine Ridge, c’è la poliziotta Alaina, stremata dal turno di notte. Almeno, dall’altra parte della radiotrasmittente, c’è la voce della centrale che la ascolta sempre. Ma proprio al cospetto della finestra-schermo è l’ultima volta che vediamo la donna, che farà perdere le sue tracce subito dopo. Che cosa è successo?

Alonso vaga per queste vite sospese, per queste conversazioni smozzicate e queste camere che accolgono lunghi silenzi, alla ricerca incessante di una presenza, nel tentativo di immortalare quella mutazione spirituale che il suo cinema insegue da sempre. Eureka diventa così una sorta di visione rituale, di seduta ipnotica disseminata di tracce ritornanti (Chiara Mastroianni fuori e dentro la storia western, la grossa piuma-amuleto…) che esplicitano l’esistenza di una connessione tra le cose che travalica l’orizzonte comune della percezione, del dato tangibile. Un movimento circolare intorno alla magia di una sparizione, un cinema trasmigrante. [SERGIO SOZZO]

THE OLD OAK
COMPÉTITION
di Ken Loach
Durata: 113′
Anno: 2023

Produzione: Gran Bretagna, Francia, Belgio

Di Ken Loach non ce n’è mai abbastanza, anche se in ogni suo film, compreso The Old Oak, rimescola le carte della Storia per affrontare poi gli stessi temi, quelli della giustizia, della dignità e della solidarietà. In questo caso a essere vessati sono i profughi siriani di un paese del Durham, in Inghilterra, paradossalmente per mano di ex vessati, cioè per mano degli ex minatori di una comunità che prima era stata sfruttata, poi colpita da una tragedia sul lavoro, di quelle evitabili, probabilmente mossi da un inconscio bisogno di vendetta.

È cosi che chi ha subito, purtroppo, non ricorda e non sa accogliere, ed è così che se uno dei più bei personaggi del cinema di Ken Loach, Mr. Ballantyne, decide di dedicare una sala del suo pub (The old oak, appunto) per fare incontrare le diverse etnie di quella città, offrendo gratuitamente del cibo, agli inglesi del posto non sta bene, perché sembra debbano far scontare la non solidarietà subita attraverso una non solidarietà data. Ma Mr. Ballantyne ci crede perchè, dopo aver colpevolmente distrutto la sua famiglia, ha bisogno di trovarne una nuova che dia un ulteriore senso alla sua vita, soprattutto nei confronti di una ragazza che vive in simbiosi con una macchina fotografica che le è stata regalata da quel padre che ora è in prigione, vittima del regime siriano.

Alla fine la comunità inglese, nonostante le intolleranze iniziali, riuscirà ad accogliere, e questa soluzione che in tanti altri film sarebbe potuta sembrare posticcia, ideologica e furbetta, nel cinema di Ken Loach risulta plausibile in quanto il regista di Sweet Sixteen ancora una volta mette in gioco la sua anima, e la sua sincerità, attraverso un cast come sempre ineccepibile perché fatto di esseri umani, non di attori, nonostante Dave Turner/Mr. Ballantyne, che meriterebbe un premio, avesse già assaggiato altri set del regista, ricoprendo dei piccoli ruoli. È la verità delle persone, e non i ruoli appresi a memoria, che riesce ancora una volta a farci entrare in empatia con le sofferenze evocate dalla storia, senza bisogno di archi e strumenti musicali vari atti a drammatizzare e coinvolgere il pubblico con il mestiere, al posto del cuore. [MARCO LOMBARDI]

FALLEN LEAVES
COMPÉTITION
di Aki Kaurismaki
Durata: 81′
Anno: 2023

Produzione: Finlandia

Poverissimi, ma non di spirito, il lui e la lei del film di Kaurismaki sono personaggi ai margini della società ma al centro di una magnifica ossessione che intreccia vita e cinema.

La guerra in Ucraina, che entra via radio nelle vite dei due protagonisti, racconta di un’arroganza e di una miseria che non sono del singolo ma della Storia e che solo l’amore può forse contrastare. Ma l’amore è un sentimento cinematografico, è stato di Anna Karina e Jean Paul Belmondo prima di lui e di lei; è un breve incontro rimandato all’infinito dagli ostacoli imposti dall’ironia drammatica dell’esistenza; è un fenomeno complesso che può essere detto nel migliore dei modi soltanto con la semplicità che è stata del cinema di Chaplin.

Comicità e amarezza convivono, in Fallen Leaves come nei film di Charlot. La crudele irrazionalità del capitale e la poesia di una canzone abitano lo stesso film perché abitano la stessa realtà. Kaurismaki traduce la malinconia in dialoghi e immagini ubriachi di umanità, trattenendo la tragedia dentro i confini della favola, la verità entro i confini della finzione. [MARIANNA CAPPI]

ASTEROID CITY
COMPÉTITION
di Wes Anderson
Durata: 104′
Anno: 2023

Produzione: Usa

C’è una cittadina (a esser generosi) nel deserto che ti sembra debba sbucare Will il coyote da dietro l’angolo. Il roadrunner invece c’è. Ci sono gli anni Cinquanta e la loro ingenuità, il sogno spaziale, gli alieni che ti guardano fisso negli occhi. C’è un commediografo che non sa come andare avanti e tutti gli dicono che “per svegliarsi bisogna dormire”, un attore che non capisce il personaggio e un regista che gli risponde che “non importa, vai avanti lo stesso”. C’è il colore e il c’è il bianco e nero, un piano e un altro, e attori che fanno attori che fanno personaggi.

C’è, in Asteroid City, un regista – Wes Anderson – che ragiona sulla creatività, i suoi meccanismi e i suoi meccanicismi. Le sue impasse. L’estetica è sempre più un’ossessione, uno schema da rispettare, una prigione in cui ci si chiude per non dover fare, parlare, tentare altro. Nella geometria ortogonale del film, anche il sentimento diventa questione di coordinate. Di misure e di distanze che non si possono più annullare.

Anderson dominava il caos dell’esistente con la sua razionalità formale, con la riduzione a feticci artistici, letterari, fumettistici dei personaggi. Oggi, a furia di controllare, quelle fessure dalle quali il sentimento filtrava ad alta pressione sono state chiuse. Se sono rimaste, al massimo ci si può affacciare, per parlare senza mai dirsi niente davvero. Tutto è dentro la scatola di Anderson, che all’ingenuità e all’entusiasmo degli anni Cinquanta guarda con malcelata nostalgia. Una scatola in cui perfino gli alieni tutto ciò che fanno è catalogare, inventariare.

Alla fine, si torna tutti a casa. Tutti ancora chiusi nella scatola delle loro vite, dei loro dolori. Lo straordinario cui si è assistito non ha cambiato granché: quel che si è visto lo si è visto senza che stimolasse troppe domande, smuovesse grandi reazioni. Si va avanti, senza capire, perché avanti bisogna andare. Per il futuro, chissà. Dipende da Anderson. [FEDERICO GIRONI]

ANATOMIE D’UNE CHUTE
COMPÉTITION
di Justine Triet
Durata: 150′
Anno: 2023

Produzione: Francia

Il corpo senza vita di Samuel viene trovato ai piedi della casa di montagna in cui viveva assieme alla moglie Sandra (Hüller, da Palma) e al figlio Daniel. Caduta accidentale? Gesto suicida? Omicidio? La verità, come nel meraviglioso About Dry Grasses di Nuri Bilge Ceylan, è racchiusa in un’immagine che non c’è. E che quindi va cercata, analizzata, interpretata, ricostruita nelle aule di un tribunale.

A quattro anni di distanza da Sibyl , Justine Triet torna in concorso a Cannes con un film solidissimo e rigoroso, in cui ancora una volta il mestiere della scrittrice diventa il pretesto per indagare una dinamica di potere che ruota attorno a corpi e ruoli femminili. Sfruttando le logiche narrative di un serrato thriller processuale (sceneggiatura firmata assieme al compagno Arthur Harari), la regista francese viviseziona un rapporto di coppia messo a dura prova dall’incidente che ha reso non vedente il figlio e che ha esacerbato antichi rancori e tensioni mai del tutto sopite. La caduta del corpo di Samuel non è allora che l’ultimo passo, quello definitivo: prima, c’è la caduta silenziosa di un sentimento, di una famiglia, di una relazione; la progressiva e inesorabile caduta nell’abisso dell’amore. [MARCO CATENACCI]

LE LIVRE DES SOLUTIONS
QUINZAINE DES CINÉASTES
di Michel Gondry
Durata: 102′
Anno: 2023

Produzione: Francia

Fresco sessantenne, l’eterno enfant terrible Michel Gondry torna – a ben otto anni dall’ultimo lungometraggio – con un film che è un bilancio esistenziale e una summa bulimica eppure essenziale del suo cinema. Dichiaratamente autobiografico, fin dalla dedica alla zia Suzette Gondry (già al centro del bel doc L’épine dans le cœur e qui incarnata dalla grande Françoise Lebrun), questo ritratto di un regista sull’orlo di una crisi di nervi rivela in controluce un racconto affilato, pur se spassoso e tenero, della depressione: «triste la mattina, manipolato il pomeriggio» è come si sente Marc ogni giorno, a dispetto (o forse a causa) degli psicofarmaci. Che smette di assumere quando, per non farsi sabotare dai produttori, “ruba” il suo film e trasloca il montaggio nella casa nelle Cévennes di zia Denise, combattendo il blocco creativo con un blocco per appunti dell’infanzia, trasformato in libro delle (autoas)soluzioni. Un intimo, sgangherato, irresistibile 8 1/2 che Gondry farcisce di invenzioni visive (supportate dal perfetto corpo comico di Pierre Niney, alter ego che riassume tutti gli eterni Peter Pan del regista francese), di amarezza e di ironia: un film piccolo e grandissimo. [ILARIA FEOLE]

ABOUT DRY GRASSES
COMPÉTITION
di Nuri Bilge Ceylan
Durata: 197′
Anno: 2023

Produzione: Turchia/Francia/Germania/Svezia

Il maestro turco Nuri Bilge Ceylan torna in concorso a Cannes con il suo nono film, About Dry Grasses, dopo la Palma d’oro vinta per Winter Sleep (2014). Ed ecco un grande, fluviale romanzo girato ancora una volta in Anatolia, a Erzurum, in una zona lontana da tutto e sommersa dalla neve per tre quarti del film.

Al centro della narrazione, che si snoda lungo tre ore e mezza con lunghi dialoghi e discussioni su temi di volta in volta quotidiani o politici e filosofici, un terzetto di personaggi indelebili. Samet (lo straordinario Deniz Celiloglu) è un giovane insegnante d’arte nichilista e ambiguo, un manipolatore nato, probabilmente un narciso, a cui la provincia va particolarmente stretta e che sogna di trasferirsi a Istanbul. Viene accusato, insieme al collega e coinquilino Kenan (Musab Ekici) di aver molestato due studentesse. In particolare, l’ipersensibile adolescente Sevim, a cui ha regalato uno specchietto e che è un po’ la sua preferita nella classe. Nel liceo predomina un tradizionalismo ipocrita e in una scena i ragazzi e le ragazze vengono addirittura perquisiti dagli insegnanti che sono alla ricerca di piccole cose proibite, come un braccialetto segno di superbia o una penna laser che potrebbe servire a infastidire le compagne. In quell’occasione, nello zaino di Sevim si trova una lettera d’amore indirizzata non si sa a chi, forse a un compagno, forse allo stesso professore.

Attorno a quella lettera si sviluppa naturalmente un piccolo dramma, ma non è questo il cuore del film che ha una struttura complessa e stratificata, come sempre nel cinema di Ceylan. Al centro della narrazione, a tratti dostoevskiana, si colloca il triangolo che si viene a creare tra Samet, l’amico Kenan e la professoressa d’inglese Nuray (Merve Dizdar), una giovane donna indipendente e politicamente molto impegnata, nutrita di idee utopistiche, assai dotata per la pittura. La ragazza è attraente ma ferita nell’animo e nel corpo, ha perso una gamba in un attentato kamikaze durante una manifestazione e non sembra in grado di elaborare questo trauma. Samet vorrebbe indurre l’amico a iniziare una relazione con lei, ma nello stesso tempo ne è attratto e la scena della seduzione tra i due culmina con un interessante coup de théâtre, l’attore esce infatti dalla stanza per addentrarsi in un teatro di posa, proprio a voler sottolineare che tutto qui è finzione e pura costruzione letteraria. O cinematografica, se si preferisce. E che l’autore riflette innanzitutto su se stesso e sulla propria arte.

Ma è al contempo importante lo scenario “naturale”, il non luogo dove i personaggi sono come esiliati, una regione estrema climaticamente e umanamente, dove ci sono solo due stagioni, il lungo inverno e l’improvvisa estate, in cui le erbe, appena uscite dal gelo, si seccano senza neppure fiorire. Spicca in questo film il personaggio di Nuray, personaggio femminile per certi versi inedito nel cinema di Ceylan, una donna forte che ha la capacità di rivendicare le proprie idee e anche la propria contraddittorietà e indeterminatezza sentimentale anche con un finale aperto. Allo spettatore resta la tragica consapevolezza dell’impossibilità di uscire da se stessi, come da una serie di trappole esistenziali per prendere davvero posizione nella vita e pure nell’agone sociale e politico. [CRISTIANA PATERNÒ]

KILLERS OF THE FLOWER MOON
HORS COMPÉTITION
di Martin Scorsese
Durata: 206′
Anno: 2023

Produzione: Usa

Sono la solita iperviolenza, e la consueta mazzata alla società americana, i veri protagonisti di Killers of the Flower Moon, ma l’ultimo film di Martin Scorsese, presentato fuori concorso a Cannes 2023, mescola questi due ingredienti (di base, nel suo cinema) a un ritrovato gusto per il grottesco (quello di Re per una notte e di Fuori orario) in grado di trasformare un eccellente Leonardo DiCaprio in un inetto che si fa scegliere dal male, quasi fosse stato preso in prestito da un personaggio dei fratelli Coen che ha visto qualche pellicola di Woody Allen.

Ernst, cioè DiCaprio, è un ragazzo che negli anni ’20 si trasferisce in Oklahoma per lavorare con lo zio, William Hale alias Robert De Niro che, sguazzando innocentemente nell’ambiguità del personaggio, ne ipnotizza la fragile coscienza fino a renderla complice del suo progetto: sterminare dal di dentro la tribù degli Osage, nativi americani che hanno la colpa di sedere su degli ingenti giacimenti petroliferi che Hale sta conquistando a poco a poco, in stile Risiko. The King (così si fa chiamare Hale, senza neanche nascondersi) induce Ernst a sedurre e sposare l’indiana Molly, proprietaria di un assai interessante lotto di terre, ed Ernst obbedisce, anche se il piano non prevede che lui s’innamori per davvero. Gli omicidi, e gli strani suicidi, proseguono così tanto da indurre la neonata FBI ad indagare proprio DiCaprio (che eppure in J. Edgar aveva interpretato il fondatore del Bureau) fino a un processo in cui Ernst ha nuovamente la possibilità di “scegliere”, e confessare alla moglie un tradimento tanto nei confronti di una comunità, quanto di una famiglia, la sua.

Scorsese, prima di essere uno dei più grandi registi di sempre, è innanzitutto un uomo che ha vissuto, e che sa, ed è per questo che il suo dito puntato si rivolge anche a quello shobiz che, nell’atto di denunciare, spettacolarizza e monetizza (in stile Chicago): è questo il senso di un finale da Re per una notte in cui l’epilogo della storia vera (del film, peraltro liberamente tratta dal best seller di David Grann) è letto da Scorsese in persona, su di uno palcoscenico. Potrebbe essercene anche per il cinema: le sequenze in bianco e nero, che lungo tutta la pellicola dovrebbero rappresentare degli estratti veri della storia vera, a guardare bene contengono gli attori del film, come a dire che anche il cinema, quando sostiene di essere oggettivo, mistifica… [MARCO LOMBARDI]

INDIANA JONES E IL QUADRANTE DEL DESTINO
HORS COMPÉTITION
di James Mangold
Durata: 144′
Anno: 2023

Produzione: Usa

Tutto comincia come una volta: Indiana (ringiovanito dal digitale, che fa miracoli), nel 1944 su un treno in corsa nelle Alpi svizzere, se la vede con i nazisti che, avidi non solo di dominio e ricchezza ma anche di poteri soprannaturali, stanno trafugando tesori artistici e archeologici, tra i quali la Spada di Longino (la punta della lancia che trafisse Gesù). Dimenticatela: il vero tesoro che viaggia su quel treno è la Macchina di Antikythera, detta anche Quadrante del destino, ovvero il primo calcolatore al mondo, progettato forse da Archimede nel primo secolo avanti Cristo. Indy, che di professione fa l’archeologo, capisce subito cos’ha tra le mani e comincia la lotta con i nazisti, aiutato solo dal professor Shaw, il pacioso collega di Oxford interpretato da Toby Jones.

Bella sequenza, molto lunga, molto classica. Alla fine della quale, però, una dissolvenza ci porta in un piccolo appartamento newyorkese, tra la biancheria stesa ad asciugare e una canzone dei Beatles sparata alta da un vicino: 1969, gli americani sono sbarcati sulla Luna e il professor Jones (Harrison Ford, com’è oggi) va a fare l’ultima lezione prima della pensione. Le studentesse non gli lanciano più baci e cuoricini con le palpebre, ma sono annoiate; tranne una, che pare molto informata su Archimede e si rivela essere la figlia di Shaw e figlioccia di Indiana, di mestiere trafficante in antichità, a caccia naturalmente dell’Antikythera.

E qui comincia la vera avventura, con una bella prima parte a Manhattan, con il professore che scappa a cavallo in mezzo alla parata per Armstrong e gli altri e poi giù fin dentro la metropolitana, seguita poi da una lunga, lunghissima successione di cacce,  inseguimenti e scontri (con l’ufficiale nazista del ’44, Mads Mikkelsen, che nel frattempo ha cambiato identità ed è diventato consulente scientifico degli americani), in location internazionali (soprattutto mediterranee) e nel tempo e nella magia.

Spettacolare, rumoroso, monocorde; ci sono i personaggi (compresa Helena Shaw, interpretata da Phoebe Waller-Bridge), ma non c’è il plot, solo un po’ di colla per attaccare insieme le scene d’azione. Fino al viaggio finale (che sarebbe meglio non rivelare), che pare di primo acchito un po’ baracconesco e invece dà il tono e il senso dell’avventura del professor Jones. L’ambientazione negli anni Sessanta ha notazioni gustose, come l’agente afroamericana della Cia vestita come Cleopatra Jones o, in Italia, la 500 bianca decorata con fiori e barattoli per un matrimonio; e certe autocitazioni della saga sono divertenti; ma il CGI è eccessivo, fastidioso, appiattente. Meglio la luce pomeridiana in un appartamento newyorkese, tra amici e anziani. Peccato, poteva essere un film migliore. [EMANUELA MARTINI]

BLACK FLIES
COMPÉTITION
di Jean-Stéphane Sauvaire
Durata: 120′
Anno: 2023
Produzione: Usa

Il cinema americano ha quasi sempre raccontato alcune categorie professionali con l’epica del mito. Soprattutto negli anni post 11 settembre, soprattutto nelle storie ambientate a New York, siamo stati abituati a vedere pompieri e personale medico ricoprire il ruolo degli eroi. La mitizzazione di chi si mette al servizio della comunità fa certamente parte della cultura a stelle e strisce ed è un topos narrativo che abbiamo imparato a dare per scontato. Black Fliesdel regista francese Jean-Stéphane Sauvaire, sembra partire da questo concetto con l’intento però di smascherarlo, provando a mostrarne il controcampo più oscuro e raramente svelato.

L’idea alla base del film è molto semplice: come può, un giovane paramedico quotidianamente a contatto con gli aspetti più malati, marci e violenti di persone e società, rimanere integro moralmente e continuare a svolgere il proprio servizio in modo irreprensibile? La pellicola racconta una New York senza speranza, talmente allo sbando da non voler essere salvata. Una città, sineddoche di una nazione, ormai incapace di riconoscere e omaggiare i propri eroi, contaminata da un male che ingloba ogni cosa.

Al di là delle intenzioni alla base del progetto, il film non riesce quasi mai a trovare il tono giusto per supportare la propria tesi. Con una messa in scena iper-violenta e una struttura che, soprattutto nella prima parte, assomiglia a un reality show ambientato su un’ambulanza, Black Flies procede per accumulo di situazioni estremizzate, che più che turbare lo spettatore finiscono per assuefarlo. Le interpretazioni sopra le righe dei protagonisti – Tye Sheridan e Sean Penn – e dei comprimari – Michael Pitt e Mike Tyson (!) – contribuiscono a dare la sensazione di trovarsi di fronte a un progetto troppo artificioso e troppo urlato per essere convincente. [FRANCESCO RUZZIER]

LE RETOUR
COMPÉTITION
di Catherine Corsini
Durata: 110′
Anno: 2023
Produzione: Francia

Khedidja si reca in Corsica per occuparsi dei bambini di una famiglia borghese in vacanza. Con lei ci sono le due giovani figlie Jessica e Farah: è un ritorno quello delle tre donne, avendo lasciato l’isola quindici anni prima in circostanze tragiche.

Nel confronto con un passato che viene ricostruito pezzo per pezzo e che, alla luce delle circostanze attuali, dipinge nel dettaglio il quadro di un trauma, Corsini compone una storia in cui confluiscono molti (troppi) motivi – dal conflitto di classe al pregiudizio razziale, dalla sessualità adolescente all’identità culturale – in una partitura programmatica e priva di qualunque sottigliezza. La scrittura è dunque rozza e automatica, infarcita di dialoghi palesemente dimostrativi, in cui il percorso a tappe non disdegna imbarazzanti flashback e spiegazioni posticce.

A statuire l’infelicità dell’esito anche certe derive melodrammatiche, (c’è persino un vago sentore del sirlkiano Lo specchio della vita) che suonano fuori registro almeno quanto i siparietti brillanti di Denis Podalydès (divertenti, ma sembrano appartenere a un altro film), pennellate squilibrate che turbano la resa dell’ambientazione còrsa come isola di fantasmi e terreno di rese dei conti familiari. [LUCA PACILIO]

MONSTER
COMPÉTITION
di Hirokazu Kore-eda
Durata: 126′
Anno: 2023
Produzione: Giappone

Non è tanto una questione legata a certificare chi sia il mostro (centro nevralgico della narrazione a cominciare dal titolo) quanto un percorso legato a scoprire questa verità. Dopo la parentesi coreana di Le buone stelle – Broker, il regista nipponico Hirokazu Kore-eda torna nel suo Giappone ma, più semplicemente, torna al suo cinema fatto di sguardi, di silenzi, di infanzie rubate.

Le ossessioni dell’autore ci sono tutte: dalla ricerca snervante di risposte, ai legami familiari più fragili e inclassificabili. Il tutto è finalizzato a prendere coscienza del fatto che, mai come oggi, l’indagine della verità è in realtà soggiogata allo sguardo che adottiamo per catturarla. Il film, scomposto narrativamente per raccontare il tutto attraverso i punti di vista dei personaggi principali, restituisce un mosaico di emozioni e di sensazioni che sarà il pubblico a dover racchiudere in un disegno complessivo.

Si inizia con un incendio, si scava nella terra e ci si inzuppa in una tormenta d’acqua. Il percorso è chiaro: la natura (che esplode nel bellissimo finale) è composta da singoli elementi che acquisiscono senso solamente quando attraversati nella loro completezza. Ogni riferimento alla nostra propensione giudicante non è puramente casuale. [SIMONE SORANNA]


di Redazione
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