Cane mangia cane
«Non ricordatemi solo per Taxi Driver». Più che un mantra, una vera e propria implorazione. A ripeterla in quasi ogni intervista rilasciata da un po’ di tempo a questa parte è Paul Schrader, splendido settantunenne con alle spalle capolavori della sceneggiatura (ma anche regie di titoli cult quali Hardcore e soprattutto American gigolo), che hanno segnato la storia della Hollywood d’autore, da anni a caccia del film e dello script che lo riescano a rilanciare dopo troppi passi falsi capaci solo di contribuire a un declino parso ormai del tutto irreversibile.
Dopo l’inconcludente The Canyons e il clamoroso flop de Il nemico invisibile (film-catastrofe di due anni or sono in cui gli fu scippato il diritto di avere l’ultima parola sul montaggio col risultato di un prodotto impossibile da riconoscere come proprio), con questo film che lo scorso anno chiuse la sezione della Quinzaine a Cannes Schrader ha tentato la rischiosissima scommessa di ritrovare una verginità creativa andandosi a misurare con una rivisitazione molto sui generis del gangster movie.
Ovvero quella riserva indiana del cinema di culto in cui non solo sembra che tutto sia già stato detto da autori come Scorsese, Friedkin, Ferrara, Tarantino e più di recente Guy Ritchie, ma nella quale Schrader stesso — non a caso sceneggiatore preferito di Scorsese — aveva inciso il proprio nome a futura memoria regalando alla storia del genere il personaggio di Trevis Bickle, lo psicotico reduce del Vietnam con la faccia di un giovanissimo Robert De Niro che dopo Taxi Driver è diventato l’icona simbolo del disagio post bellico e dell’emarginazione che la società civile regala a chi ha combattuto per garantirne il benessere in poltrona.
Una scommessa azzardata per chiunque, anche per un «autore» del calibro di Schrader che per questa missione impossibile si è affidato a Cane mangia cane, uno dei romanzi che hanno regalato notorietà mondiale a Edward Bunker, uno che il crimine lo conosceva bene in diretta avendo trascorso quasi vent’anni al fresco per rapina a mano armata, prima di convertirsi in osannato scrittore variamente saccheggiato da Hollywood (con Tarantino in testa, affascinato da questa insolita figura di canaglia con vocazione letteraria al punto da offrirgli la parte di Mister Blue nel suo folgorante esordio registico de Le iene).
Deciso a non lasciarsi condizionare dai canoni di un genere fin troppo consolidato e trafficato per permettere a chiunque di muovervisi con disinvoltura all’interno senza dare l’impressione di essere un elefante in un negozio Swarovski, ma al contempo convinto di poter imprimere la propria impronta d’autore anche in un territorio in cui si aggira sprovvisto di navigatore, con questa sua trasposizione del violentissimo romanzo di Bunker Schrader ha cercato di assestare l’ennesima zampata al muro di gomma del sistema dello showbiz rivendicando quell’autonomia autorale di cui è stato sempre fin troppo orgoglioso.
E per farlo ha mescolato con astuzia le carte in tavola: partendo dalla più classica storia di fallita redenzione post-carceraria di tre balordi che si scoprono incapaci di adattarsi al vivere civile e accettano un ultimo colpo (facile all’apparenza ma in realtà pieno di trappole nascoste) che li arricchisca avviandoli a una forma alternativa di pensione, il film accetta gli ingredienti canonici del genere condendoli con componenti «altre» che ne permettano la destrutturazione per poi riproporre una nuova formula capace di rivitalizzarne l’universo immaginifico reso liso dall’abuso degli stereotipi.
Ecco quindi l’affidarsi a maestranze giovani e non condizionate dal peso della tradizione cui lasciare briglia sciolta per sfogare una creatività vagamente anarchica che si esplica in un trionfo un po’ kitsch di fotografie ipersature destinate a raffigurare i deliri acidificati dei tre compari, un montaggio ipercinetico che alterna colore e bianco e nero come clave visive, effetti da videoclip (split screen) in gara con incursioni nel cartoon, dialoghi da letteratura pulp e battutacce da caserma, ma soprattutto tanto rock sparato a palla a fare da trampolino sonoro per scene di violenza parossistica il cui intento era forse quello di disinnescarne l’impatto sul pubblico, ma che finiscono però con l’essere sgonfie citazioni di un manuale per chi voglia fare film alla Quentin Tarantino.
Come se Schrader avesse avuto paura di farsi etichettare alla stregua della classica vecchia gloria incapace di evadere dalle gabbie del passato per reimpossesarsi di un presente filmico che da troppo tempo non è più suo, Cane mangia cane denuncia una forma di giovanilismo senile col fiato corto che spiace dover imputare a chi ha firmato la sceneggiatura degli scorsesiani Toro scatenato e L’ultima tentazione di Cristo.
Intendiamoci: la presenza di un «autore» vero la si vede eccome. Pur in questo frullato un po’ scomposto di componenti eterogenee, il tocco di Schrader e la sua idea di cinema che professa indipendenza proprio nel disobbedire alle regole di ciò che è consolidato e parte del sistema si intravede nitido tra le pieghe di un hellzapoppin in cui si è voluto far spazio a troppa materia visiva e narrativa per un film che dura soltanto 93 minuti. Non saranno infatti in pochi quelli che in futuro continueranno a citare come un memorabile incipit d’autore la lunga sequenza iniziale nella quale Willem Dafoe — attore feticcio del regista di Grand Rapids — massacra a coltellate l’ex fidanzata obesa in una casa tutta rosa confetto e poi ne esegue la figlia a revolverate.
Ma il problema è che quel «tocco» non ha il potere di risolvere quello che pare il limite più vistoso dell’intera operazione: e cioè mettere in scena un romanzo scritto a metà degli anni ’90 e irrimediabilmente legato a quel cenozoico socio-culturale di un ventennio fa come se fosse una riflessione sulla ferocia del presente e una visione del domani che verrà. Senza invece rendersi conto di aver sfornato un’immagine di cinema inconsciamente datata ma impacchettata in una carta piena di lustrini che strizzano l’occhio all’hic et nunc ma non sono in grado di rappresentare con efficacia visiva quell’oggi in fuga.
Trama
Dopo aver capito di non essere in grado di reinserirsi nel tessuto sociale adattandosi a una normalità che non hanno mai conosciuto, tre balordi con alle spalle storiacce di violenza e galera di vario tipo decidono di accettare l’offerta di lavoro fatta loro da un eccentrico capobastone della mafia. E cioè rapire un bambino, figlio di un altro malavitoso che sta derubando il boss. Un lavoretto da principianti, all’apparenza, ma così ben pagato da permettere al terzetto di sistemarsi senza dover continuare a delinquere. Il piano perfetto c’è, ma le cose non vanno come da copione. E il finale è un crescendo con massacro.
di Guido Reverdito