Brucio nel vento

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brucionelventoSu queste pagine si è a suo tempo parlato della debolezza dell’ultimo film di Soldini (Pane e tulipani), di un cedimento di stile verso la facile risoluzione dei sentimenti. L’uso strumentale di talune semplificazioni e luoghi comuni, tuttavia, non fecero dubitare della sincerità con cui si esprimeva il regista milanese giunto al suo quarto film. Si era inoltre detto che così facendo Soldini aveva acquisito un pubblico tutto nuovo che nella maggior parte dei casi ignorava i film precedenti.
Con questa nuova opera dal timbro squisitamente svizzero (in un senso tanner-gorettiano) appaiono evidenti la volontà e il desiderio di ritornare al rigore delle origini con particolare attenzione ad un’opera su analoghi temi (Un’anima divisa in due-1993), quasi forse un’ammenda ad un proprio presunto cedimento stilistico. Quel film in effetti ben poco aveva in comune con la poetica di questo autore mestamente e sottilmente minimalista. Il film individua due linee tematiche che appaiono integrate l’una all’altra senza sovrapposizioni: l’una di carattere mitico, in cui il protagonista insegue un amore edipico rivolto alla propria sorella (nata dalla relazione clandestina del padre, maestro elementare, con sua madre che è una giovane prostituta), l’altra sociologica che riguarda più strettamente la condizione umana dell’immigrato nella dimensione urbana dell’Europa occidentale.

Soldini, nel basarsi su una forte traccia romanzesca (il testo appunto dell’ungherese Agota Kristof), costruisce un personaggio di una profondità tragica che mescola assassinio, alienazione e poesia, ma che tuttavia rimane incompiuto, e per taluni versi contraddittorio.
Nel film passato (l’infanzia nel villaggio ceco, la figura materna e quella di Line) e presente (la vita quotidiana nella città lacustre in Svizzera francese) non corrispondono ad una reale dialettica interiore e inoltre vi è forse uno stacco troppo brusco fra le due unità temporali. Vi è infatti da parte del protagonista una sorta di negazione della propria origine (anche nel rifiuto del nome di battesimo), di rimozione del proprio delitto (l’accoltellamento del padre di Line) che ineluttabilmente verrà da lui stesso ripetuto. Ma Tobias-Dalibor non è un vero assassino, ma un operaio infelice e alienato, un poeta ispirato o un uomo innamorato, un immigrato ceco fra tanti immigrati cechi che non parlano mai del loro paese.
Ma è nei grigi quotidiani, nella ripetitività dei gesti, negli interni disadorni o anche nel robusto ritratto dell’amico sempre affamato che il film di Soldini trova i suoi momenti più ispirati. Come e meglio che in Occidente (2000) di Corso Salani, Brucio nel vento coglie l’essenza dell’immigrazione rinunciando a qualsiasi retorica miserabilistica e nostalgica e al tempo stesso se ne distacca volgendo lo sguardo con intensa partecipazione stilistica all’anomalia “poetica” di uno dei suoi figli. Solo nel finale il film tracima in un eccesso di univocità di significato, calato tuttavia in un clima di ottimismo non esente da certa retorica sentimentale.

Maurizio Fantoni Minnella

Note critiche
di Mariella Cruciani

L’ultimo film di Soldini racconta una storia di “amour fou” declinata, insolitamente, al maschile e, ancor più insolitamente, con un finale rassicurante e positivo.
Analogamente alle corrispondenti eroine femminili ( Adele H. di Truffaut, Bess di Le onde del destino di Lars Von Trier), anche il bel Tobias non riesce a trovare un senso alla sua vita se non nel raggiungimento dell’ agognato oggetto del desiderio.
L’unica differenza consiste nel fatto che il protagonista del film di Soldini riesce, a dispetto di ogni ragionevole aspettativa, a realizzare il suo sogno.

Dopo aver cercato invano la sua Line nella scialba Iolanda, nell’aggressiva Eva, nella giovane Vera, Tobias riconosce, immediatamente, nella sconosciuta del bus “la piccola peste della sua infanzia”.
Da quel momento in poi, per lui, non c’è più requie: Line diventa, ma in fondo lo era già, il centro di ogni suo pensiero o azione. Tobias ama in maniera assoluta e totale, come solo chi è rimasto bambino riesce a fare. In altre parole, egli non ha affatto liquidato, nonostante il desiderio di cancellarlo, il passato e si trova, così, costretto a riviverlo. Assunta su di sé l’identità paterna, Tobias-Dalibor spia, infatti, Line e suo marito, come faceva, da piccolo, con la madre e i suoi compagni occasionali.

Insomma, Tobias è preda di una coazione rispetto alla quale non può scegliere: l’amore per Line è tutt’uno con il suo destino. Del resto, se la normalità è incarnata dalla mediocrità e dalla tiepidezza del marito di lei, perché diventare “altro”? Tobias è una di quelle rare, speciali creature, di cui pullulano le opere di Fassbinder, per le quali la passione si rivela, ineluttabilmente, una specie di boomerang: l’eccesso di sentimento è, per costoro, forza e molla vitale ma anche, se non appagato, mortifera spinta autodistruttiva. Infischiandosene della tradizione letteraria, in genere, del principio di realtà, nonché della conclusione del romanzo “Hier” di Agota Kristof da cui è tratto il film, Soldini decide di regalare al suo eroe un’altra possibilità.
Come il sofferto protagonista di Tornando a casa di Marra, anche Tobias, con la sua Line, si dirige, infatti, verso un paese sconosciuto e impara una lingua nuova.
“Un uccello ferito prende un volo obliquo ma, disperato, ricade ai miei piedi”, recita, ad un certo punto del film, Tobias: Soldini ama, invece, talmente il suo personaggio ferito da permettergli, nonostante le ferite e il suo passato “obliquo”, di spiccare il volo.


di Maurizio Fantoni Minnella
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