Brothers
Sam è un giovane ufficiale americano in partenza per l’Afghanistan. Stimato e amato dalla bella moglie, adorato dalle sue due bambine, è anche l’orgoglio del padre che, reduce dal Vietnam, rivede incarnato nel proprio figlio quel sano e virile patriottismo che egli stesso sente intimamente radicato dentro di sé. Ma alla cena di commiato di Sam è presente anche Tommy, appena uscito di galera; lui è il figlio che non è mai stato all’altezza del proprio fratello, è quello rissoso e irresponsabile che passa il tempo a bere mentre l’altro mette a rischio la propria vita per la democrazia, per la patria, per l’onore dell’America insomma. La rivalità sotterranea e sempre pronta ad esplodere che esiste tra i due fratelli passa necessariamente attraverso il giudizio paterno: una visione manichea e in fondo distorta, imbevuta di quella retorica patriottica che il film – amaramente e necessariamente – decostruisce pezzo per pezzo fino a ridurla in polvere. Quando Sam viene dato erroneamente per morto, Tommy gradualmente lo sostituisce nella vita affettiva di Grace e delle bambine, disorientate, come lui stesso del resto, dallo strazio inaccettabile del lutto.
Inaspettatamente prende forma un nuovo, delicato equilibrio, e Tommy finalmente trova un ruolo all’interno di una famiglia che, fino a quel momento, lo aveva in pratica tenuto ai margini della propria esistenza. Ma Sam ritorna, stravolto per sempre dall’esperienza atroce della guerra e della prigionia: il marine calmo e responsabile è diventato ora una mina pronta a scoppiare, un uomo con la follia negli occhi, cupamente taciturno, spesso violento e aggressivo. Nel frattempo, il fratello sconsiderato e imprudente si sta comportando come un perfetto padre di famiglia, e le bambine lo preferiscono ormai al loro vero padre: i ruoli si sono invertiti.
La complessità dei rapporti familiari è raccontata da Jim Sheridan con attenzione e senza banalità, e gli attori (Natalie Portman nel ruolo di Grace, Toby Maguire in quello di Sam, Jake Gyllenhaal in quello di Tommy) danno corpo a personaggi pienamente capaci di esprimere fino in fondo quel groviglio complicato di emozioni e sentimenti contrastanti da cui sono attraversati senza sosta: dolore, speranza, rimpianto, amore, rabbia. Il film fonde i toni del melodramma con le tematiche angosciose della guerra, o meglio col problema del “ritorno alla normalità” dei reduci: un processo per forza di cose angoscioso, e forse neppure completamente attuabile, come suggerisce un finale aperto che proprio per questo appare quanto mai credibile e verosimile.
Brothers, come dichiarano i titoli di testa, è basato sull’omonimo film della regista danese Susanne Bier, distribuito pochi anni fa in Italia col titolo (per certi versi fuorviante) Non desiderare la donna d’altri; impossibile non notare che dove il film danese si fa più asciutto e crudo – tamponando così perfettamente la sostanza melodrammatica – quello di Sheridan lascia invece spazio a una rappresentazione dei sentimenti lievemente più edulcorata, più hollywoodiana si potrebbe dire, mentre nel lungometraggio della Bier soffia ancora quel vento freddo e graffiante del movimento Dogma 95, di cui la regista in passato ha in parte condiviso le regole. Le differenze tra i due film sono situate soprattutto nello stile, più composto quello di Sheridan, più “sporco” e acerbo quello della Bier (che peraltro gira in digitale). Sheridan insomma firma una versione più compita e, se vogliamo, formalmente elegante del danese Brødre: il risultato è un’opera sicuramente più tradizionale dal punto di vista formale ma in cui tuttavia resta solida, profondamente sentita e perfettamente sviluppata la riflessione spinosa che la vicenda narrata chiama in causa. La domanda finale che il protagonista fa a se stesso non potrà che restare irrisolta: è possibile, dopo essere sopravvissuti alla guerra, “tornare alla vita”?
Brothers si inserisce così in quella sofferta meditazione sul ruolo americano negli attuali conflitti bellici in Medio Oriente portata avanti negli ultimi anni da film significativi come Redacted di Brian De Palma e La valle di Elah di Paul Haggis; ma la storia di Sam è in fondo anche quella di ogni soldato e della “abnorme normalità” che ogni guerra pone in atto nell’assurda pretesa di fare della violenza e dell’omicidio una prerogativa necessaria dell’esistenza.
di Arianna Pagliara